La storia è viva e reattiva. Non perdona. Il gusto avvelenato dalla virulenza della polemica politica, dai volatili giudizi del sentito dire subito dilaganti sulla grande informazione e attraverso internet nel Web, ha contaminato anche la visita di stato del premier spagnolo Pedro Sanchez a Buenos Aires. Nel salutare l’importante ospite, primo partner economico europeo dell’Argentina, perciò accompagnato anche da numerosi uomini d’impresa, il presidente Alberto Fernandez ha ceduto per un momento all’impulso della cordialità colloquiale citando la consumata facezia secondo cui “i messicani discendono dagli indios, i brasiliani dalla selva, gli argentini dai piroscafi…”. Intendeva testimoniare per la sua gente origini e sentimenti europei, una cortese evocazione di vicinanza etnico-culturale con la Spagna e l’Europa.
Ma ha provocato suscettibilità internazionali, disappunto e le immediate accuse di razzismo degli avversari politici interni, che per la verità non hanno mai rivendicato neppure i più elementari diritti primigeni per i popoli originari. Essendo bensì — al contrario —, i rappresentanti storici del preteso “paese bianco” nel continente meticcio. Reso presuntamente tale non tanto dagli oltre 3 milioni d’italiani e spagnoli immigrati tra l’Ottocento e il Novecento del passato millennio. Quanto dalle cosiddette “campagne del deserto” (il generale Julio Argentino Roca ne è la massima icona), con le quali ottenuta l’Indipendenza i reggimenti di cavalleria dell’esercito hanno conquistato all’ordine latifondista le terre sottratte con lo sterminio al nomadismo degli abitanti autoctoni. I processi di occupazione territoriale interni alla formazione degli stati nazionali e degli imperi coloniali nell’epoca moderna sono sempre soggetti alla revisione degli storici. Ma i fatti comprovati restano fatti.
La frase dello scandalo, in essenza drammatica, pur se stemperata dal tono autoironico con cui la pronunciò lo scomparso poeta messicano Octavio Paz, premio Nobel della Letteratura, vuol essere un’auto-interrogazione aperta che ci poniamo tutti, individui e popoli: chi siamo, da dove veniamo? Proprio per la sua essenzialità, negli anni è stata rielaborata nelle parafrasi anche autorevoli di scrittori come Carlos Fuentes, connazionale di Paz, e di cantautori latinoamericani di successo come l’argentino Lito Nebbia. Per diluirsi poi nel flusso del linguaggio popolare e di lì precipitare nel pozzo dei luoghi comuni. Parabola interessantissima, poiché scoperchia l’origine talvolta alta ma soprattutto l’uso invece troppo spesso approssimativo e superficiale degli echi antropologico-culturali latinoamericani. Di tanto in tanto presente perfino nei discorsi ufficiali, come abbiamo appena visto; ma che sistematicamente alimenta la massa per complessiva dell’informazione internazionale sull’America Latina. Con effetti distorsivi, quando non falsificatori della realtà rappresentata.
In particolare, prevalgono nella grande informazione italiana sull’America Latina (e in minor misura in quelle spagnola, francese e nordamericana) visioni stereotipate che alimentano un immaginario collettivo sostanzialmente folclorico e tendenzioso, qualche volta perfino onirico. Tanto più in quest’epoca in cui il pericoloso avvicinarsi di stile comunicativo tra informazione e pubblicità ha diffuso l’idea che per essere convincenti bisogna essere divertenti. Quindi spazio non agli inviati sul posto (che costano cari), bensì al glamour della rappresentazione monstre: alla crisi sociale narrata in versione telenovela, al confronto politico ridotto a sfida tra personaggi-maschere da Carnevale, a una visione millenarista della fame nel continente con le maggiori disuguaglianze dell’Occidente. In cui il milione e più di morti della pandemia Covid, migrazioni bibliche, elezioni che non assicurano governabilità, il narcotraffico che spadroneggia su interi territori e gli sforzi inauditi di quanti — e sono molti — a tutto questo cercano un rimedio, finiscono nell’indistinzione di una fatale, informe poltiglia.
Livio Zanotti