skip to Main Content

I sindacati, il green pass e le polemiche

L'intervento di Pietro Bertoli

Questa è stata un’estate calda, per qualcuno a causa dei presunti cambiamenti climatici indotti dall’uomo, per altri a causa del susseguirsi, in un’interminabile escalation, di provvedimenti, interpretazioni e FAQ (che diventano nuove fonti normative), fughe in avanti, dichiarazioni di virologi, politici, imprenditori e sindacalisti, estate calda che rischia di preludere a un autunno incandescente.

Siamo arrivati all’estate 2021 dopo lunghi mesi di pesanti provvedimenti decisi dal governo, mesi di sacrifici, in cui le parti sociali hanno trovato il modo di rendere sicuri i posti di lavoro e consentire così alle imprese di proseguire nelle attività e ai lavoratori di mantenere una sostanziale continuità lavorativa.

A tal fine, a fianco dei protocolli di sicurezza, si sono disposti strumenti a supporto di imprese e lavoratori (la CIGO COVID, il blocco dei licenziamenti ma anche i congedi parentali straordinari, tanto per citarne qualcuno). Il sistema ha sostanzialmente tenuto: le fabbriche, le aziende (in generale il tessuto produttivo italiano) non sono mai diventate focolaio di contagio; le attività hanno bene o male retto nel complesso, tanto che non si è verificato il temuto “via libera” ai licenziamenti collettivi non appena decaduto il blocco.

Moltissimi paesi nel mondo hanno decretato la fine delle restrizioni sanitarie, anche in assenza di campagne vaccinali pressanti come quella condotta in Italia, tornando così ad una vita complessivamente normale (non entrando in una “nuova normalità”) e senza registrare dati preoccupanti sul versante sanitario.

In Italia, in Francia, in alcuni stati americani, invece, questa estate è stato il momento per varare misure ancora più restrittive, per indurre un surrettizio obbligo vaccinale grazie alla introduzione di “certificati” atti a consentire lo svolgimento delle normali attività quotidiane solo ai vaccinati o a chi, a parte i guariti (ma comunque con scadenza temporale), possa sostenere il costo di un tampone ogni 48h (con la relativa affidabilità). Si è quindi acceso un dibattito rovente, con toni ben al di là di quelli che dovrebbero caratterizzare un civile confronto, tra chi sostiene la necessità del “certificato” e chi, prontamente etichettato con il termine dispregiativo di “no-vax”, sostiene, anche nel rispetto di quanto decretato in sede europea, la illegittimità di tale provvedimento che impedisce nei fatti la libera circolazione e pone una pietra tombale sul diritto allo studio, oggi, e sul diritto al lavoro nelle prossime settimane.

Araldi del “certificato” per entrare in azienda tutti i maggiori esponenti del mondo industriale e delle sue associazioni, quasi come se fossimo tornati indietro al febbraio-marzo 2020, all’alba di una situazione epidemiologica incognita e non già con l’esperienza di aver gestito con successo quasi due anni di emergenza sanitaria.

Questa posizione certamente non può stupire: è il potere, nelle sue varie declinazioni, che mostra il suo volto.

Stonano però, in questo contesto, le voci sindacali acriticamente schierate al fianco degli industriali nel richiedere, unici al mondo insieme forse all’Uzbekistan, che venga disposto un generalizzato obbligo vaccinale per risolvere i problemi generati dalla difficoltà di interpretazione delle norme di applicazione del “certificato” (altrimenti noto come “green pass”).

Sarebbe stato ingenuo aspettarsi dalle organizzazioni sindacali tutte una posizione di contrasto a tale “lasciapassare” che introduce palesi e pesanti elementi di discriminazione tra i lavoratori (e non è solo un problema di come accedere alle mense aziendali, evidente strumentalizzazione atta a far conseguire la “certificazione” per entrare nel luogo di lavoro, ma è, nell’immediato, la fine di tanti sanitari e docenti lasciati soli nel decidere se accettare la sospensione dal lavoro o “scegliere liberamente” di vaccinarsi).

No, il sindacato, che dovrebbe tutelare i più deboli e gli ultimi e la loro dignità, apertamente chiede, in modo pilatesco, insieme ai padroni, che venga istituito per legge l’obbligo vaccinale per tutti.

È lo stesso sindacato che si batteva per “la lotta dell’uomo nella scoperta del suo primato e della sua dignità contro le oligarchie del potere; contro lo strapotere economico, quello burocratico, quello tecnocratico e contro lo strapotere politico – partitico a seconda dei differenti modelli di organizzazione della società. È contro di essi che la persona umana si batte alla conquista di quella partecipazione che affermando il suo primato e quello della sua dignità, facciano lo Stato a misura dell’uomo e non l’uomo a misura dello Stato”.

È il sindacato che gridava “potere contro potere”, che significa “che di fronte alla crescente concentrazione dei poteri, di fronte alla tendenza all’uso autoritario delle istituzioni, la classe lavoratrice italiana attraverso le sue organizzazioni intende contrapporre, apertamente, la propria forza, la propria volontà di innovazione e di progresso. Potere contro potere significa quindi lotta contro ogni disegno di conservazione, contro lo sfruttamento, contro ogni forma di autoritarismo, di oscurantismo culturale, di uso per fini di parte delle istituzioni dello Stato”.

Sono passati poco più di 50 anni da quel luglio del 1969 in cui Storti ridava forza a quella forma di rappresentanza così fieramente autonoma dal “potere” da permettersi di definirsi “contro potere”.

Oggi, invece, assistiamo a una complessiva cooptazione da parte del “potere”, così forte da aver trasformato il sindacato da “contro potere” a “sindacato educatore”, un organismo che deve esercitare un “ruolo pedagogico” verso i lavoratori, facendo digerire loro anche le più palesi discriminazioni (“Dovevano essere i sindacati a pretendere il Green pass” sentenzia Savino Pezzotta dalle colonne del Foglio) in nome di posizioni “educatrici” che riecheggiano sempre più il “tutto per lo Stato, nulla fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato” grazie alla loro indistinguibilità rispetto a quelle espresse dal potere costituito.

In realtà questa sorta di “involuzione” non dovrebbe stupire più di tanto.

È un fatto storico che le organizzazioni più stabili e più strutturate si configurino come quelle “più quiete” per non dire più corporative. Scriveva Rigola nel 1921 “in fondo il processo formativo del sindacato non si svolge diversamente dal processo formativo degli Stati. La deposizione delle Signorie, il governo centrale, l’autorità, la legge, il funzionarismo, la democrazia, il suffragio universale, rivivono in quello come sono vissuti e vivono in questi, sebbene con finalità diverse. Stato e organizzazione sono sinonimi. […] Chi mira alla rivoluzione non può credere all’efficacia trasformatrice del sindacato”.

In questo momento storico così teso e difficile, per non lasciare indietro i più deboli, per non lasciare mano libera a quelle che potrebbero essere interpretate come moderne azioni di crumiraggio (come la possibile sostituzione del personale docente sospeso perché senza “certificazione”), il sindacato dovrebbe riscoprire il suo volto di movimento di resistenza e l’antica vocazione mutualistica.

Un’esortazione ai sindacati per tornare ad essere davvero un “contro potere” e non per ambire ad essere cooptati in un’ennesima cabina di regia: se l’emergenza sanitaria è tale da richiedere più vaccini per tutti pena il collasso del sistema sanitario nazionale, perché accettare senza palese opposizione che il famigerato Pnrr destini solo 18 miliardi di euro sui 222 totali (meno del 10%) alla sanità (sanità che si configura come il piano con il numero minore di finanziamenti anche rispetto alla “missione inclusione e coesione”)?

Invece di parlare all’unisono con il potere, con chi detta le parole d’ordine e le regole del gioco, i sindacati riscoprano (se non è troppo tardi) la loro originaria natura resistente e mutualistica, magari, anche pragmaticamente, costituendo autentici fondi di solidarietà per i lavoratori sospesi senza stipendio perché senza “certificato”, tornando ad essere (o diventando) il vero “contro potere” al fianco dei più deboli.

Back To Top