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Fontana Scuola

I quindicenni e l’anomalo desiderio della scuola

Il post di Diana Zuncheddu

A volte succede.

Succede che un tuo figlio quindicenne, immerso nello scazzo da mesi, dichiari sommessamente ma con intonazione sicura: “Comunque io voglio tornare a scuola”.

La dichiarazione è stata registrata e ripetuta anche davanti ai fratelli, ai parenti stretti congiunti e conviventi, e anche, via telefono, ai parenti lontani.

Il corollario c’era, ed era: “Non ce la faccio più a vedere soltanto le vostre facce”.

Va bene anche questo, va bene anche: “Ma non c’è da comprare il latte?”, ripetuto ogni sera verso le sette.

Va bene tutto, più dell’apatia o della rassegnazione, e più dell’occhio a mezz’asta dalle 7 del mattino alle undici di sera, qualunque cosa tu dica, faccia, proponga o possa urlare.

La verità è che anche il Covid, a modo suo, fa magie. Le fa per privazione, per stimolazione continuativa del desiderio, per esasperazione, ma evidentemente le fa.

Il novenne che carica la lavastoviglie cantando Ian Dior, quella alle medie che finalmente si è tolta il pigiama e fatta una doccia per tornare a scuola. E anche il quindicenne, che invece a scuola non ci può ancora tornare, e nonostante tutto, tutta la distanza del mondo da una scuola frontale, iperteorica e old style, ci vuole comunque tornare, perché è sempre meglio la scuola di questo isolamento coatto con i parenti stretti e niente altro, se non la commessa del super quando scende a comprare il latte.

Di questi tempi si riescono a seguire, ogni tanto, i webinar con psicologi e educatori, incontri organizzati dalle scuole – ebbene sì, le scuole, e pubbliche, signori – dove tutti stanno zitti, quelli che parlano sono solo due, non ci sono risse, non ci sono presentatori con ego ipertrofici, ci sono solo pensieri e parole, e un pubblico che non sai nemmeno quale sia, come sia, e cosa pensi – che fortuna.

In uno di questi incontri il prof. Recalcati, molto più efficace dal vivo che dagli scritti, per me, dice che non c’è poi da disperarsi, i minorenni hanno risorse che noi adulti non immaginiamo, ce la faranno e ce la faranno bene, magari non avranno imparato il supino latino o la formula di una pallina che scende da un piano inclinato, pazienza. Ma non chiamatela generazione Covid, mai.

No no, non la chiameremo mai generazione Covid. Sono già la generazione Z, la generazione nativa digitale, la generazione di quelli che non fanno i temi e di quelli che passano la vita su Instagram e TikTok, di quelli che per dirti una cosa ti mandano un vocale su Wapp.

Resta la generazione dei quindicenni nel 2020, che forse avranno desiderato e amato la scuola per sua assenza.

Saremo grati se avranno già imparato, a quindici anni e nonostante noi genitori, che nella vita capita di dover fare, di dover sopportare, di dover fare i conti con ciò che non si vuole.

Sarà un grande risultato, peccato soltanto che sarà stato a costo di Covid.

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