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Armaroli

I Presidenti della Repubblica visti da Armaroli

Il libro di Paolo Armaroli "Mattarella 1 & 2. L'ombrello di Draghi. Ritratti a matita dei 12 presidenti" (La Vela) letto da Damato

 

Quel diavolaccio di Paolo Armaroli, l’unico costituzionalista e poi anche politico della destra al quale Indro Montanelli, quando lo assoldò nella sua ciurma al Giornale, non riusciva a correggere un aggettivo o a spostare un virgola, pur abituato com’era a farlo con tutti, tanto lo considerava un giornalista ben riuscito, mi ha fatto uno scherzo da preti, se non si offendono i preti.

Mi ha tirato in un’imboscata con un libro – pubblicato al solito da La Vela – che mi aveva fatto leccare i baffi per quei “ritratti a matita dei 12 Presidenti della Repubblica” promessi in copertina. Chi meglio di lui – mi sono chiesto – mi potrà far divertire raccontandomeli quasi tutti più o meno dal vivo, con più notizie di me, pur cronista di vecchio mestiere, per le maggiori frequentazioni politiche avute e la maggiore conoscenza degli aspetti tecnici, chiamiamoli così, di una funzione così importante come quella del capo dello Stato?

Invece che cosa mi combina l’autore con la complicità naturalmente dell’editore provvisto – per carità – delle sue buone ragioni in un momento peraltro difficile per i libri? Delle 213 pagine del libro, ben 72, se non le ho contate male, sono state dedicate al presidente della Repubblica ancora fresco di conferma, senza neppure il sottinteso di un mandato incompleto come nel 2013 con la rielezione di Napolitano. Il resto, pari a 141 pagine, sempre che abbia saputo fare di conto, è stato destinato ai predecessori, alla media di poco più di dieci pagine l’uno. E così la mia curiosità è andata a farsi fottere, con i baffi che del resto non ho.

Nella sua estrema sintesi, per carità, Armaroli è stato bravissimo a fotografare i predecessori di Mattarella: dal “presidente per grazia ricevuta” De Nicola, il provvisorio, alla “viva voce della Costituzione” come l’autore ha definito quella del presidente Luigi Einaudi, il migliore di tutti secondo lui; dall’”interventista” Giovanni Gronchi salito dalla presidenza della Camera al Quirinale nel 1955 col dichiarato proposito di spingere l’evoluzione degli equilibri politici dal centrismo al centrosinistra, al “frenatore a mano” e collega democristiano di partito Antonio Segni, eletto nel 1963 e colto da un ictus l’anno dopo; dal “santo patrono del centrosinistra” che tornò ad essere sul Colle il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat al “giurista immolato sull’altare della ragion politica” quale fu Giovanni Leone, costretto a lasciare il Quirinale sei mesi prima della scadenza del mandato, come vedremo, per una sostanziale congiura dei partiti contro di lui, a cominciare dal suo”, a quel formidabile “Castigamatti” di Sandro Pertini che lo sostituì guadagnandosi una popolarità forse mai uguagliata da altri; dal “presidente per disgrazia ricevuta” che fu Oscar Luigi Scalfaro, eletto nel 1992 sotto l’emozione traumatica della strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, al “cantore della Patria” che si rivelò Carlo Azeglio Ciampi rianimando bandiere e sfilate, e al “presidente del doppio mandato” Giorgio Napolitano, peraltro l’unico comunista o post-comunista salito così in alto. Che, diversamente dal successore Mattarella, misurato nei toni anche quando perde la pazienza, accettò la rielezione scudisciando il Parlamento che non aveva saputo trovargli un successore e, soprattutto, non aveva saputo realizzare uno straccio di riforma.

Armaroli conosce la mia franchezza e non si stupirà se amichevolmente gli contesto quel rimprovero a Leone di avere in qualche modo disatteso il suo “cognome”, non essendo “mai stato” un uomo di coraggio. Beh, un presidente della Repubblica che di fronte al sequestro di Aldo Moro e al declamatorio annuncio di una linea della fermezza che tutti sapevano di difficile tenuta e utilità, convoca il segretario del suo partito al Quirinale, Benigno Zazzagnini, per manifestargli il proprio dissenso e si dà da fare davvero – unico fra tutti – per aprire la prospettiva di un epilogo meno tragico del sequestro predisponendo la grazia di uno solo dei 13 “prigionieri” con i quali i terroristi avevano reclamato lo scambio con l’ostaggio, e ci rimette per questo il posto su imposizione dei partiti, a cominciate dal suo, finendo in un processo sommario per tutt’altri motivi, ebbe un coraggio veramente da leone, raggiunto dalle scuse con i soliti ritardi dei vigliacchi.

Su Mattarella, sulla esplorazione persino psicologica che ne fa l’autore, sulle ragioni della improvvisa conversione dal no al sì alla conferma, tanto di cappello ad Armaroli, che senza tanti fronzoli, in una ricostruzione minuziosa dei fatti, è andato al sodo del problema indicando nella conferma del presidente della Repubblica la coerenza con la difesa del quadro politico da lui stesso voluto con inusitata fermezza mandando Draghi a Palazzo Chigi. Dove francamente non vedo chi altri potrebbe oggi stare, tra emergenze di ogni tipo, con la stessa serietà.

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