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Meritocrazia

Le lezioni dei 150 anni dell’Italia unita

L'Italia compirà i suoi 150 anni di unità. Li compirà il 20 settembre, il giorno in cui gli italiani andranno a votare per il referendum, su un problema neppure dei maggiori. L'articolo di Corrado Sforza Fogliani

 

A giorni, l’Italia compirà i suoi 150 anni di unità. Li compirà il 20 settembre (1870, presa di Porta pia) il giorno – quindi – in cui gli italiani andranno a votare per il referendum, su un problema neppure dei maggiori, come capita di dover fare d’ogni tanto in virtù della Costituzione repubblicana. Ma con lo Statuto albertino, il referendum era quotidiano, nelle due Camere: col sistema elettorale dei collegi uninominali su ogni problema il Presidente del Consiglio (o il ministro di turno) doveva conquistarsi una maggioranza, convincendo ad uno ad uno i parlamentari (dei quali si sapeva, grosso modo, solo se fossero di un orientamento o dell’altro, liberale democratico o liberale conservatore).  Ogni votazione era un referendum, nessuna maggioranza precostituita, com’è coi partiti e col sistema elettorale nostro. Com’è, soprattutto, col sistema proporzionale: così che, quando si alza uno a parlare, si sa già quel che dirà (lo aveva esattamente previsto Einaudi – contrario alla proporzionale – alla Costituente).

Dimostra l’assunto anche il dibattito parlamentare che si sviluppò – sia nel Senato regio che alla Camera dei deputati – sull’opportunità di andare o no a Roma (dopo aver fatto il primo passo, che era stato quello di fissare la capitale a Firenze). Un dibattito nel quale Cavour si impegnò con tre grandi discorsi, ora raccolti in una pubblicazione edita da Libro aperto e curata da Antonio Patuelli insieme a chi scrive. Una pubblicazione –  per così dire – in assoluta controtendenza (come ha scritto Marco Bertoncini su Italia Oggi) atteso il grande disinteresse che sembra regnare intorno alla storica (secolare) data.

Cavour pronunciò i suoi discorsi su “Libera Chiesa e libero Stato” e su “Roma capitale” nel marzo – aprile 1861, un decennio prima di quando l’Italia riuscì poi a coronare il suo intento. Sono discorsi da (e di un) grande statista, nei quali il Presidente del Consiglio delineò lucidamente, con ferrea ed esemplare logica, mista a vivo amore patriottico, le ragioni incontrovertibili che volevano Roma capitale del nuovo Stato liberale.

A Roma – disse in buona sostanza il conte (morì qualche mese dopo, com’è noto) – ci si doveva andare con l’accordo della Francia (che considerava lo Stato della Chiesa un suo, per così dire, protettorato), ma ci si doveva andare soprattutto “invocando il principio di libertà”. Presupposto di tanto, il convincimento dei cattolici liberali (come fu poi dimostrato con la legge della Guarentigie nel 1871) che si sarebbe potuta, come si poté, conservare l’indipendenza del Papato. Spiegò Cavour che il principio della libertà applicato ad una società religiosa cattolica era un “principio nuovo”, ma nel quale si doveva credere e per la cui affermazione ci si doveva battere così come egli si batteva. E ciò, pur ben sapendo (disse il conte esplicitamente, fra i battimani, ma anche con ironia) che se la Chiesa avesse accettato il principio di libertà, si sarebbe subito formato un partito cattolico, che avrebbe costretto Cavour a rassegnarsi a finire la carriera “sui banchi dell’opposizione”. La Chiesa di allora non accettò, prigioniera di “privilegi e monopoli spirituali” (Bertoncini). Anzi, adottò il Sillabo: contro le libertà di ogni tipo, compresa quella religiosa, e così via. Ma accettò poi, quasi cent’anni dopo. E avvenne quel che Cavour aveva lucidamente previsto e coraggiosamente accettato, nell’interesse non del partito liberale, ma dell’Italia e della libertà. Andava così, allora. Quando al Governo c’erano dei galantuomini, e dei geni.

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