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Google Cloud Cina

Dragonfly, ecco i tormenti dei dipendenti di Google sul motore truccato in Cina

Il personale di Google si ribella al ritorno in Cina della società. Il timore è che il rientro nel web cinese del motore di ricerca di Mountain View possa sostenere la censura governativa di Pechino.

Il personale di Google si ribella al ritorno in Cina della società. Il timore è che il rientro nel web cinese del motore di ricerca di Mountain View possa sostenere la censura governativa di Pechino. Circa 1400 dipendenti hanno firmato una lettera di protesta rivolta al management, intenzionato a sviluppare Dragonfly, una versione censurata del motore di ricerca che non “disturbi” Pechino.

L’AUTO-ESILIO NEL 2010

Lo sviluppo di Dragonfly segnerebbe una significativa svolta nelle politiche aziendali di Mountain View. Google, infatti, nel 2010 decise di chiudere il suo motore di ricerca nel Paese proprio a causa della censura governativa (e di un attacco hacker a G-mail). Quella scelta passò sui media come l’esempio della politica idealista di Mountain View, riassunta nel motto “Don’t be evil”, “Non siate malvagi”.

Sembra che ora le cose stiano cambiando, con lo sviluppo – che è in larga parte segreto – di Dragonfly.

I fatti hanno dimostrato che la Cina può fare a meno di Google, ed è difficile non leggere nel possibile lancio di un motore di ricerca “rispettoso della censura” una sconfessione dell’approccio “etico” tenuto sin qui dal colosso della Silicon Valley.

L’idea iniziale che Pechino non potesse fare a meno di Google si è rivelata sbagliata. Scrive il New York Times che l’auto-esilio dalla Cina ha esercitato poca pressione su Pechino. Al contrario, «ha reso Google superfluo per il più grande mercato mondiale di utenti internet». Infatti in Cina il motore di ricerca più diffuso è Baidu. È soprattutto quest’ultima argomentazione – assieme a un allentamento delle maglie della censura registrato negli ultimi anni – a spezzare il fronte dei dissidenti interni a Google.

Va detto che la società non ha mai lasciato veramente la Cina, malgrado il suo servizio più noto, il motore di ricerca, non sia accessibile. Attualmente conta oltre 700 dipendenti nel Paese e l’anno scorso ha annunciato lo sviluppo di un centro di ricerca sull’intelligenza artificiale.

Comunque, anche ammesso che Dragonfly venga sviluppato, non è affatto detto che possa diventare immediatamente operativo. Prima bisognerà ottenere l’approvazione di Pechino che, come scrive il NYT, tende a tenere a distanza i colossi americani dell’IT come Facebook, preferendo lavorare con compagnie cinesi.

COSA CHIEDONO I DIPENDENTI

Il personale nella lettera chiede innanzitutto maggiore trasparenza. «Non abbiamo informazioni per prendere decisioni etiche sul nostro lavoro e sui nostri progetti» scrivono i dipendenti nel documento, che circola nel sistema delle comunicazioni interno aziendale. Buona parte del personale di Google, insomma, teme con il proprio lavoro di sostenere le politiche governative cinesi, che la stessa Google nel 2010, quando si è auto-esiliata, aveva definito “totalitarie”.

Non è la prima volta che l’attivismo interno del personale di Google conquista le cronache. Lo scorso giugno, il management aveva annunciato di non voler rinnovare la partnership con il Pentagono per lo sviluppo di un’intelligenza artificiale applicata al settore militare, proprio a causa delle resistenze dei dipendenti, rese pubbliche dalla stampa.

Tuttavia, a Mountain View la questione cinese resta aperta. «Stiamo seriamente ragionando su come fare di più in Cina – ha detto giovedì il ceo di Google Sundar Pichai in una riunione dello staff di cui il NYT ha scritto di avere la registrazione audio – Detto questo, non siamo vicini a lanciare un motore di ricerca nel Paese». Secondo quanto riporta il quotidiano newyorkese, quando alcuni report di quella riunione sono finiti su Twitter, Pichai e il resto del management hanno smesso di rispondere a domande su Dragonfly.

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