Skip to content

Arte E Fascismo Sgarbi

Gli sgarbi di Sgarbi su arte e fascismo

“Arte e fascismo” (La Nave di Teseo) di Vittorio Sgarbi letto da Tullio Fazzolari

 

Quando non si è capaci (o forse non se ne ha nemmeno l’intenzione) di trovare più appropriato la soluzione più semplice e più comoda è quella di affibbiare una banale etichetta. Così, nell’immaginario collettivo, tutta l’arte del ventennio è stata troppo spesso definita “arte fascista”. Non c’è bisogno di essere grandi esperti della materia per accorgersi di un primo errore. In quel periodo si sono espresse diverse tendenze artistiche ed è pura superficialità “fare di tutt’erbe un fascio”. L’altro errore, sicuramente non voluto, è anche peggiore perché rischia di essere un harakiri politico. I capolavori italiani di quegli anni, dalla pittura alla scultura, dall’architettura all’urbanistica, sono un patrimonio della nostra cultura e attribuirli di fatto alla dittatura non sembra una scelta saggia.

Circa un secolo dopo sembra ormai tempo di fare chiarezza mettendo un netto distinguo fra la parola ‘arte’ e qualunque altro aggettivo le venga associato. Lo fa con grande efficacia Vittorio Sgarbi di cui tutti conoscono attraverso i media il suo ruolo di polemista ma non sempre viene ricordato che è soprattutto uno dei massimi esperti d’arte. Le due doti si combinano perfettamente per un libro che è finalmente un’operazione di verità.

“Arte e fascismo” (La Nave di Teseo, 96 pagine, 15 euro), arricchito dalla prefazione di Pierluigi Battista, si presenta con un sottotitolo che sgombra subito il campo da equivoci e strumentalizzazioni: “Nell’arte non c’è fascismo. Nel fascismo non c’è arte”. Più chiaro di così non poteva essere. E in meno di cento pagine è ampiamente dimostrato che pittori o scultori né erano compromessi con il regime né che fossero al suo servizio. Nemmeno i futuristi, nonostante l’adesione del movimento al fascismo. Nelle proprie opere ciascuno esprimeva il suo talento. Per dirla con linguaggio da profani, il rapporto tra gli artisti e il regime fu nella sostanza soltanto un rapporto d’affari. Qualche anno dopo la fine della dittatura fu proprio un artista, accusato di connivenza con il fascismo, a dichiarare con estrema sincerità che prima del ventennio faceva la fame e poi poté finalmente lavorare serenamente grazie agli incarichi per realizzare nuove opere. Basta questo per essere considerati servi del regime? Assolutamente no perché, come scrive Vittorio Sgarbi, “qualunque cosa chieda il potere, l’idea dell’artista sarà più forte di quel potere”.

Con un po’ di presunzione e senza l’indiscutibile competenza di Sgarbi si può provare a raccontarlo con un singolo esempio. Ed è quello di Biagio Tommaso Poidimani all’epoca del ventennio giovane scultore siciliano, poi ignorato e infine rivalutato grazie al suo conterraneo Leonardo Sciascia. Una splendida scultura di Poidimani raffigura la partenza di un legionario per la guerra. Certo è una camicia nera. Ma lo si può immaginare con qualsiasi altra divisa ed è evidente che restano l’abbraccio con la famiglia e il dolore per il distacco con una forza degna di un quadro risorgimentale di Hayek. Come giustamente dice Sgarbi è arte punto e basta. Tutto il resto appartiene al passato.

Torna su