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Javier Milei

Giustizia e politica in Perù e Brasile

Due distinte e diverse vicende in Perù e Brasile suggeriscono riflessioni convergenti sui rapporti tra verità politiche e verità giudiziarie, rispetto dei diritti e della dignità delle persone, grado di legittimità dei governi. L’approfondimento di Livio Zanotti, autore de Ildiavolononmuoremai

 

Denunciato da più parti per gravi violazioni dei diritti umani, il governo peruviano di Dina Boluarte è chiamato dalle Nazioni Unite a risponderne entro 60 giorni indilazionabili. A quasi tre mesi dalla destituzione e incarcerazione del presidente Pedro Castillo, accusato dal Congresso di aver tentato un colpo di stato, le proteste di piazza dei suoi sostenitori continuano in gran parte del paese. Così come la repressione da parte dei reparti speciali della polizia anti-sommossa. Il bilancio è tragico: 60 morti, un “fermato” scomparso, mille e 301 feriti dei quali un centinaio in gravi condizioni tra i civili; 580 i poliziotti finiti in infermeria, 12 gravi, nessuno colpito da armi da fuoco. Sono numeri che secondo gli osservatori dell’ONU misurano gli eccessi della repressione.

Solo nello sgombero del campus dell’Università di San Marcos, a Lima, dove avevano trovato rifugio alcune centinaia dei manifestanti giunti dal meridione e dall’interno del paese, per lo più indios quechua e aymara, e numerosi studenti, la polizia ha portato via 200 persone tra le quali quella che risulta “scomparsa”. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani rileva che “lo stesso linguaggio ufficiale delle massime autorità peruviane” eccede i legittimi limiti giuridici, in quanto si spinge a “dichiarare guerra” ai manifestanti, che chiama “nemici della patria e terroristi”. Parole che “autorizzano comportamenti conseguenti da parte delle forze di polizia”. E rivelano, andrebbe aggiunto, il sentimento di estraneità che il governo Boluarte sente nei confronti di una parte tanto rilevante della popolazione: la questione storica che divide il Perù e ne ritarda lo sviluppo.

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In Brasile, la Corte dei Conti competente ha infine riconosciuto la correttezza dei bilanci contabili dell’ex sindaca di San Paolo, Luiza Erundina, scagionandola da ogni sospetto. La notizia di per sé non meriterebbe una rilevanza internazionale. A renderla eccezionale, oltre alla notorietà politica nazionale della immediatamente interessata, è però il tempo richiesto dalla sentenza: 31 anni! Durante i quali Erundina, che oggi ne ha 88, anche grazie alla stima personale e alla solidarietà di molti avversari politici, è stata comunque un’attivissima parlamentare. Prima dirigente del Partido dos Trabalhadores, il PT, che ha contribuito a fondare accanto a Lula; poi, quando non ne ha più condiviso le alleanze centriste, del socialista, ecologista e femminista PSOL. Gli abnormi tempi burocratici di certe verità giudiziarie non possono evitare il sospetto che a ritardarle vi siano state remore culturali e interferenze politiche.

Da sempre animata da una passione missionaria, Luiza Erundina sognava di diventare medica. Ma settima di 10 figli d’una famiglia contadina del Paraiba, nel misero Nordeste, da bambina lavorava vendendo per la strada le frittelle preparate in casa dalla madre. Frequentando la scuola quando poteva e per il resto arrangiandosi da sola con i libri presi in generoso prestito da insegnanti e vicini. Senza tuttavia mai arrendersi alla fatica. Con l’aiuto di una zia riesce a trasferirsi nella capitale dello stato, Joao Pessoa, e grazie a un parroco frequenta l’Università Federale, Scienze Sociali. Alla politica si avvicina con le Leghe Contadine del comunista Francisco Juliao, che lottavano per la riforma agraria. “È una delle persone che potranno portare avanti il Brasile e pacificarlo”, mi disse il governatore del Pernambuco Miguel Arraes, un socialdemocratico conosciuto nel suo esilio di Algeri al tempo della dittatura militare, quando alla fine del secolo scorso me la presentò in una conferenza internazionale a San Paolo.

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