Flavia Perina, l’ex direttrice del Secolo d’Italia che la conosce bene e ne apprezza, come ha scritto sulla Stampa, “la velocità con cui sta conducendo il suo mondo verso nuove sponde”, più europeiste o meno sovraniste della destra cui eravamo abituati, ha mostrato qualche preoccupazione per il proposito appena annunciato da Giorgia Meloni di fare arrivare per la prima volta una donna alla carica di amministratore delegato di una società a partecipazione statale, cioè pubblica. Se non all’Eni, dove Claudio Descalzi è dato per intoccabile, una mimosa potrebbe arrivare altrove inavvertita, come la stessa Meloni dice delle donne che avanzano condividendo le parole pronunciate da Elly Schlein a proposito della propria elezione imprevista al vertice del Pd. Dove invece era stata generalmente prevista l’elezione dell’ennesimo uomo, il ben piantato Stefano Bonaccini, preferito dai circoli nelle votazioni riservate agli iscritti.
All’annuncio, anzi proposito, di una mimosa al vertice operativo di un’azienda pubblica “l’attenzione – ha riferito la Perina – si desta all’improvviso, il sussulto nel parterre dei rappresentanti della maggioranza è quasi percepibile. Perché – ha proseguito la brillante editorialista della Stampa – va bene tutta questa roba da donne – l’Europa, il grazie a Boldrini, il riconoscimento a Schlein – ma sulle nomine, sulle partecipate, sull’eterna trincea del potere maschile, ecco, lì uno strappo diventerebbe davvero difficile da deglutire”.
UNA DONNA AL QUIRINALE, DICE MELONI
Sarà pur vero quello che ha pensato e scritto la Perina liquidando come “più lontano e simbolico” il “riferimento alle sue prossime ambizioni e progetti” avvertibile nella prospettiva di una donna al Quirinale indicata dalla Meloni in una festa a Montecitorio, davanti al suo ritratto aggiunto a quelle di altre signore entrate nella storia delle istituzioni repubblicane; sarà pur vero, dicevo, quello che ha pensato e scritto la Perina, ma da cronista purtroppo molto più avanti di lei negli anni posso assicurarvi che dietro le quinte, specialmente a sinistra, un Quirinale al femminile oggi fa più impressione di una donna al vertice di un’azienda partecipata. Oggi, perché la destra si trova in posizioni di vantaggio.
La scadenza del Quirinale è lontana effettivamente, come accennato dalla Perina, finendo nel 2029 il secondo mandato di Sergio Mattarella, cioè nell’anno successivo all’inizio della prossima legislatura in tempi ordinari. Che mi sembra difficile compromettere con una crisi, com’è avvenuto nella scorsa estate interrompendo il percorso del governo di Mario Draghi e della legislatura.
Per quanto abbia i suoi problemi, per carità, anche al netto delle amplificazioni cui possono essere legittimamente interessate le varie opposizioni, la maggioranza di centrodestra o destra-centro ha buone possibilità di resistere sino alla conclusione ordinaria – ripeto – della legislatura e quindi del suo mandato. E nella prossima non è affatto detto che la Schlein, per quanto potrà ancora sorprendere o arrivare inavvertita chissà dove, riuscirà a capovolgere davvero i rapporti di forza usciti dalle urne del 25 settembre scorso.
ANNI ED ETÀ
Di certo, invece, nella nuova legislatura e, più in particolare nel 2029, alla scadenza – ripeto – del secondo mandato di Mattarella, la premier avrà 52 anni: due in più del minimo richiesto anagraficamente dall’articolo 84 della Costituzione per aspirare al Quirinale. Silvio Berlusconi ne avrebbe 92, validi di certo per ritentare la corsa fallita l’anno scorso ma forse troppi, superiori persino agli 82 anni maturati dall’indimenticato Sandro Pertini quando fu eletto al Quirinale, nel 1978, e agli 89 che lo stesso Pertini avrebbe compiuto sul colle più alto di Roma se fosse riuscito a ottenere la rielezione, inseguita nel 1985 dietro le quinte a dispetto dei dinieghi o smentite ufficiali, prima che venisse chiamato a succedergli Francesco Cossiga.
LE CARTE DI MELONI
La Meloni, insomma, qualche carta da giocare l’avrebbe di sicuro, specie se nel frattempo riuscisse a produrre nell’Unione Europea e relativo Parlamento i cambiamenti che persegue sostituendo alle solite maggioranze di popolari e socialisti una di popolari e conservatori.
Se sono rose, con le sue spine naturalmente per la sinistra di qualsiasi trazione, fioriranno. Sennò rimarrà alla Meloni il privilegio non non certo irrilevante di avere rotto – come si è soliti dire – il soffitto di cristallo maschile di Palazzo Chigi. Che non è francamente poco, vista anche la velocità con la quale ha saputo o potuto decuplicare la forza del suo partito fondato dopo l’eclisse di Gianfranco Fini, vittima non so se più del famoso infortunio della casa di Montecarlo, appena ammesso pubblicamente in un’aula di tribunale, o della smania di affrancarsi dalla leadership di Berlusconi. Che pure aveva sdoganato politicamente la destra, esclusa per tantissimi anni dal cosiddetto arco costituzionale di conio demitiano, scendendo in campo nel 1994 e vincendo le prime elezioni della cosiddetta secondo Repubblica in alleanza anche con l’ancora Movimento Sociale.