Giorgia Meloni si è esposta in questa campagna elettorale con un impegno persino superiore a quanto si sarebbe previsto, considerando lo sforzo compiuto in questi quasi due anni di governo per darsi un’immagine e una sostanza istituzionali, riconosciute soprattutto all’estero. D’altra parte, quest’attivismo militante era prevedibile, date sia l’importanza della posta in gioco in queste elezioni, sia la passione del presidente del Consiglio per la politica fatta di interviste, di piazze, di cose da dire e da fare. Da quando è a capo del governo, non per nulla, ha spesso lamentato la nostalgia e la difficoltà di adattarsi alla vita di Palazzo Chigi.
Così facendo Meloni si è consapevolmente prestata alle inevitabili accuse di avere rivenduto bluff e patacche elettorali, come i centri per gli immigrati in Albania, la social card e la riduzione delle liste d’attesa nella sanità: critiche nelle quali un filo di verità c’è, ammettiamolo. Ma tutto sommato ne è uscita bene, tranne che per qualche caduta di stile, come quando ha opposto un “Seee…” riferito agli immigrati definiti “poveri cristi” dal deputato Magi, che era andato a rovinarle la festa in Albania. Un cenno di nervosismo, un sintomo dell’inevitabile impossibilità di tenere sempre tutto sotto controllo, soprattutto il proprio carattere irruento. La gaffe l’ha fatta apparire per un momento come una persona di scarsa umanità, anche perché era di poche ore prima la sua denuncia per l’irregolare gestione dei flussi migratori.
Calenda, al quale non si può disconoscere la capacità di dare giudizi efficaci ed equilibrati, anche se questo gli giova poco nel proporsi come protagonista politico, dice che a Meloni ogni tanto “parte la brocca”. Il premier avrebbe potuto forse sfruttare meglio altri elementi? Per esempio i dati sempre molto positivi che arrivano da diverse fonti come Istat e Confcommercio, l’aumento dell’occupazione, la riduzione del disagio sociale? Se ha preferito puntare su exploit più nazional popolare è perché sa cosa fa l’effettiva differenza in un mercato elettorale di bocca molto buona, abituato a scegliere con la pancia.
La posta per cui Meloni si è spesa e ha puntato mettendo tutta se stessa è duplice. Da un lato c’è il referendum sul governo che il voto europeo ovviamente rappresenta, giungendo come una sorta di elezione di midterm. Ma soprattutto c’è il tentativo di rilanciarsi, con l’eventuale successo, quale leader internazionale dei conservatori. Quello che bisogna tenere a mente è che la presidente ha un’ambizione sfrenata, che vive dell’adrenalina fatta di sfide sempre nuove, che tende ad alzare continuamente l’asticella. Il suo obiettivo, essendo già entrata nella storia italiana come primo capo del governo donna e di destra, è diventare una statista pari a Reagan, Thatcher, Kohl e soprattutto Merkel, capace di segnare un’epoca e confermare che, alla fin fine, a fare la differenza sono soprattutto i grandi leader moderati, conservatori, di centrodestra.
Si è continuamente detto, e la fine della campagna elettorale lo conferma, che il problema di Meloni è non avere una squadra alla sua altezza, tantomeno all’altezza di quest’ambizione, scontare uno staff capace delle fesserie più evitabili. Una vecchia chat fra il portavoce del ministro Lollobrigida e un famigerato ultrà laziale è stata il pretesto dell’ultima palata di fango da parte dell’opposizione. In queste shitstorm si mescolano l’effettiva ed eccessiva presenza di ex neofascisti nell’entourage delle leadership di centrodestra e una modalità bolscevica: riesumare frammenti di conversazioni non rilevanti dal punto di vista penale a distanza di anni è un sistema a orologeria, il combinato disposto tra magistratura e giornalismo è inquietante, assume le sembianze di una sorta di potere eversivo rispetto alla libertà degli individui e alla correttezza dei confronti politici.