Giovedì 30 gennaio, alle ore 18,00, presso il Centro Internazionale di Brera a Milano, verrà presentato “Parigi Hammamet”, un giallo-politico scritto da Bettino Craxi negli ultimi anni di vita e dato alle stampe oggi da Mondadori. L’evento sarà moderato da Sergio Scalpelli e interverranno Stefania Craxi, Pierluigi Battista e Maurizio Belpietro. (Redazione Start Magazine)
+++
“Parigi Hammamet”, è un sorprendente romanzo in cui il celebre statista italiano rilegge, affidandoli alla finzione della narrativa, gli avvenimenti che hanno segnato la fine del suo percorso politico.
Il protagonista della storia è Karim, un poliziotto italo-tunisino di quarantaquattro anni che vive ad Hammamet. Con la scusa di andare a visitare la sorella, porta la sua famiglia in vacanza a Parigi, dove in realtà ha un appuntamento con l’ex primo ministro italiano Ghino, cui è legato da antica e profonda amicizia. Ghino ha chiesto aiuto a Karim perché teme per la propria vita, e la realtà non impiega molto tempo a dargli ragione: al centro del mirino, oltre a Karim e a Ghino, una coppia di bodyguard francesi e una spia russa. Col passare delle ore, il disegno criminoso diventa sempre più evidente: qualcuno vuol far pagare a Ghino il suo passato politico, e la sua determinazione a non accettare i compromessi imposti dalla politica internazionale e dalle opache organizzazioni che la influenzano. Su tutte una, dal nome misterioso: “Koros”. Il lettore viene così avvolto da un intreccio di affari, intrighi, storie d’amore segrete, promesse non mantenute, vendette e tradimenti che risvegliano nei protagonisti la voglia di vivere e il bisogno di libertà, libertà che si può ottenere solo con la determinazione a liberarsi dall’ombra inesorabile di Koros. (dal sito della fondazione Bettino Craxi)
+++
Conoscevo Ghino da almeno vent’anni. Ogni estate andava a trascorrere le vacanze ad Hammamet. Da tempo non era più un turista, ma uno di noi. Una persona semplice, disponibile, pronta a farsi carico dei problemi di tutti, delle questioni anche più banali e quotidiane, tanto diffidente e cauta nei confronti dei suoi pari, intendo dire i politici, i dirigenti, gli uomini di potere, quanto fiduciosa nelle persone qualsiasi, amica di tutti, pronta a sedersi nella più umile casa di pescatori per discutere, inframezzando francese, italiano e arabo, sulle cose di tutti i giorni. Una volta s’era messo in testa di insegnare a un mio parente come conservare le alici sotto sale. E ci rimaneva male, perché quel giovane pescatore si dimostrava scettico e tradizionalista, sicuro che non ci fosse nulla di meglio che far essiccare le sardine al sole.
E, mentre nella villa di Hammamet lo aspettavano ministri, industriali, magistrati e amici altolocati, lui rimaneva lì, accanto al pescatore, a perorare la causa del “sotto sale”, senza spazientirsi, anche davanti all’impuntatura e alla testardaggine. Io ci avrei litigato. Lui, tranquillo, perorava e spiegava.
Dopo pochi giorni, a conferma che la strategia delle alici gli stava sinceramente a cuore, ne parlò a cena, a casa sua, dove aveva invitato me e Samira. A tavola c’erano un giornalista americano, uno scultore dell’Est europeo, due ex ministri, un magistrato in cerca di favori, un suo amico francese, un regista carico di Oscar con la moglie e due collaboratori. E, infine, due signore amiche della moglie di Ghino.
Di recente era diventato presidente del consiglio, primo ministro d’Italia, mica poco. Trascorreva sempre una settimana di vacanza, anche se non di riposo, nel suo rifugio di Hammamet. Gli ospiti avrebbero voluto ben figurare, parlare dei massimi sistemi del mondo. Alcuni di loro avevano ben studiato qualcosa ed erano pronti a recitarla davanti al presidente.
Non ho mai ben capito la ragione, ma Ghino stimola la voglia di apparire più di quello che si è anche se non c’è alcun interesse a farlo, perché o già ti stima oppure ti ritiene un cretino con le ali da cretino. Nei giudizi sugli uomini è un conservatore. Può passare, in casi eccezionali, dalla stima alla disistima, mai viceversa.
Credo di aver compreso il suo metro di classificazione, che non tiene affatto conto del ceto sociale, della nazionalità, dell’etnia, del livello culturale. Gli piacciono l’intelligenza e la fattività, con una marcata preferenza per l’homo faber, comunque giudicato più sapiente dell’homo sapiens.
Probabilmente in ciò v’è una punta di narcisismo, giacché lui per primo è un gran lavoratore. Al mondo esistono, per lui, persone utili a se stesse e agli altri, che danno un senso al loro esistere, e parassiti velleitari, non utili e, talora, anzi troppo spesso, dannosi.
Questi ultimi non li sopporta neanche in fotografia. E lo dà a vedere senza problemi, benché sia restio ad andare sino in fondo, a cancellarli del tutto dalla sua vista, una volta per sempre.
La cena delle alici, dunque. C’erano convitati pronti a cogliere al balzo un aggettivo, una frase, uno spunto qualsiasi, sul quale costruire il lifting di se stessi. E lui, invece, senza alcuna ombra di perfidia, anzi con il candore di un bambino, li costrinse a restare terra terra sul problema delle sardine, una questione che ovviamente nessuno aveva studiato per tempo.
A parte Michel, il suo amico nizzardo, che la sapeva lunga, almeno sul modo di cucinarle, pur con una punta di campanilismo – “Le alici delle mie parti sono le migliori”, ripeteva, esaltando il mar Ligure ed umiliando tutti i restanti mari e oceani incapaci di far crescere saporiti i pesci –, tutti gli altri, me compreso, non andavano più in là della definizione di “pesce azzurro”.
Il cineasta tentò di librarsi lo stesso, partendo dall’azzurro per giungere a Marlene Dietrich, l’“Angelo Azzurro”, appunto, che, però, non c’entrava niente. Nessuno gli diede retta. Il tentativo del regista di spostare la conversazione sui suoi cavalli di battaglia, il cinema, la bellezza muliebre, l’arte, era miseramente fallito. Lo scultore tentò anch’egli di uscire fuori tema. Invano. Furono entrambi riportati d’autorità davanti alla non-poesia delle cassette di pesce da conservare, altrimenti è spreco e cattivo odore.
Il giornalista americano, da sempre convinto che le alici fossero un’astrazione e che, a volerle proprio considerare esistenti, si poteva conceder loro di essere nate e cresciute nei tubetti di pasta d’acciughe, prese addirittura qualche appunto. Per lui era quasi uno scoop, la scoperta di un nuovo essere vivente, anche se gli ronzava nella testa il dilemma: prima l’acciuga o prima il tubetto?
Gli altri, specie il magistrato, annuivano e basta, sicuri del fatto che anche il solo dire sempre di sì fosse un segno palpabile della loro intelligenza creativa.
Io, naturalmente, rimanevo in silenzio, sempre più spaventato dallo sguardo insinuante di Ghino. E sì, l’obbiettivo principe di quella riunione di segreteria politica sulle acciughe ero proprio io.
A ognuno il suo.
Quel tema riguardava me. Ghino voleva convincere me, per avere un alleato importante e vincere la partita col mio giovane parente pescatore.
È la politica delle alleanze, il sale non delle acciughe, ma del realismo calcolato. Così, almeno, mi spiegò, perorando la causa delle cose possibili.
Io mi convinsi, non tanto per la calda e informata esortazione, ma perché Ghino aveva un’arma segreta, che tirò fuori al momento opportuno, quando lo stomaco è già pieno, eppure conserva un angolino per le ghiottonerie. Fu un colpo basso. Fece portare in tavola un gran piatto ovale colmo di alici, già sotto sale, con olio, limone e prezzemolo. Con parole ferme mi obbligò all’assaggio. Obbedii, facendo scherzosamente il saluto militare. Aveva ragione lui.
Erano deliziose, stuzzicanti, con un che di lussurioso. Mi incaricò, quindi, di portarne una porzione generosa anche all’impunito, con l’avvertenza di controllare che l’intera famiglia prendesse confidenza con quella specialità. Divenni così il suo alleato. Portai a termine quella missione delicatissima. Se non fosse riuscita, chissà cosa avrebbe pensato di me, quel teorico della fattività. Fui fortunato.
Il giovane vetero-pescatore cedette di schianto, come capita ai muli, che, dopo aver scalciato, alla fine prendono atto di essere più somari che cavalli, o comunque bardotti o affini.
L’oggetto di quella raffinata ragnatela politica si persuase con la velocità con la quale gli italiani – parola di mia madre – si convertirono dal fascismo all’antifascismo, da un fanatismo all’altro.
Anzi, si specializzò in quell’arte, tanto che, dopo qualche mese, apri un negozietto: pesce fresco e soprattutto barattoloni di alici sotto sale. Fece, perdipiù, ottimi affari, perché divenne una moda mangiare le alici “metodo Ghino”.
Ripensavo a queste particolarità del carattere del presidente, mentre silenziosamente ci avviavamo verso place de la Concorde, che, come la Torre Eiffel, sembrava vicina e invece non lo era affatto. Io sono affezionato a quest’uomo dall’andatura caracollante e la ragione è già illustrata dalla storia delle acciughe.
Non ha sempre ragione, non è vero che sia sempre deciso sul da farsi, spesso sbaglia ed è tentennante, ma il genio c’è, si sente che c’è. E questa presenza forte e palpabile fa incazzare o fa innamorare.
Ghino appartiene alla categoria del tutto o niente: o lo si ama o lo si odia.