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Covid Germania

Perché in Germania politici, industriali e 007 sbuffano per lo shopping cinese (non solo Daimler)

L’approfondimento di Pierluigi Mennitti da Berlino  Poco dopo aver acquisito il 9% delle azioni di Daimler, l’imprenditore cinese Li Shufu fondatore della Geely e presidente della Volvo ha trascorso i giorni successivi in pellegrinaggio nei luoghi del potere berlinese per rassicurare l’establishment tedesco rispetto ai timori di svendita della tecnologia automobilistica e alle buone intenzioni…

Poco dopo aver acquisito il 9% delle azioni di Daimler, l’imprenditore cinese Li Shufu fondatore della Geely e presidente della Volvo ha trascorso i giorni successivi in pellegrinaggio nei luoghi del potere berlinese per rassicurare l’establishment tedesco rispetto ai timori di svendita della tecnologia automobilistica e alle buone intenzioni verso l’azienda di Stoccarda. I politici si sono bevuti le sue rassicurazioni (o hanno fatto finta, facendo buon viso a cattivo gioco), i media tedeschi un po’ meno. “Cosa vuole Li Shufu?”, domandava la Süddeutsche Zeitung, mentre l’Handelsblatt – portavoce non ufficiale degli industriali tedeschi – commentando la rinuncia di Li Shufu a un posto nel Cda, scriveva maliziosamente: “Ma uno spende 7 miliardi di euro, diventa il primo azionista singolo dell’azienda per il piacere di baloccarsi con un po’ di tecnologia?”.

L’ondata di investimenti e acquisizioni cinesi che si è abbattuta sull’industria europea, e tedesca in particolare, è un tassello fondamentale della strategia di acquisire quel know-how tecnologico necessario per far compiere all’industria cinese il sospirato salto di qualità dalla produzione di massa a quella di qualità. La Germania si scopre indifesa dopo anni in cui è prevalsa l’idea che aprire i canali commerciali con Pechino avrebbe da un lato rafforzato l’economia tedesca, dall’altro innescato trasformazioni politiche in Cina accompagnando una crescente democratizzazione del regime.

La seconda ipotesi non si è verificata e la recente riforma della Costituzione che consegna a Xi Jinping la leadership a vita e un cumulo di poteri senza precedenti dimostra anzi che il processo ha prodotto il risultato opposto. E per quanto riguarda la prima è certo che il sorprendente boom economico tedesco di questo secondo decennio del secolo è stato basato soprattutto su un robusto export verso la Cina, ma la conseguenza è che oggi larga parte dell’economia tedesca dipende da Pechino. A cominciare dall’industria più importante, quella automobilistica: nel 2017 Daimler, BMW e Volkswagen hanno venduto sul mercato cinese 1,37 milioni di veicoli (+9% rispetto al 2016), annullando i timori riscontrati su altri mercati in seguito agli scandali del dieselgate. Ma tante realtà della piccola e media imprenditoria tedesca (dall’energia alla meccanica al riciclo dei rifiuti) si sono legate a consorelle cinesi attraverso joint venture, accettando di avere poca o nulla voce in capitolo nella gestione pur di ottenere accesso al grande mercato asiatico.

Nel frattempo i tempi sono cambiati velocemente e da qualche anno i cinesi sono arrivati in Germania a far man bassa di aziende: lo chiamano lo shopping del dragone. Come riportato da uno studio dell’Istituto economico di Colonia (Institut der deutschen Wirtschaft, IW), ammonta a 193 il numero di imprese tedesche acquisite o partecipate da investitori cinesi dal 2010 al luglio dello scorso anno, la maggior parte localizzata nei Länder industriali del Baden-Württemberg e del Nordreno-Vestfalia. E l’attivismo dei cinesi in Germania non è rallentato, nonostante il governo di Pechino avesse reso alla fine del 2016 più restrittive le norme per il via libera agli investimenti degli imprenditori cinesi all’estero e quello tedesco avesse stretto le maglie del regolamento sul commercio estero. “In questa fase la Cina dà il via libera a quegli investimenti che aiutano a realizzare la nuova via della Seta e il piano Made in China 2025 che punta alla modernizzazione dell’industria”, ha scritto Christian Rusche, economista dell’IW. Per concretizzare il piano, aggiunge l’economista, si deve “sostituire la tecnologia straniera con quella cinese e sostenere l’industria della Repubblica popolare nella competizione globale anche attraverso acquisizioni o partecipazioni”. Non è un caso che nel mirino degli investitori cinesi ci siano le aziende dei due Länder prima citati: Baden-Württemberg e Nordreno-Vestfalia sono le regioni che registrano la più alta attività di ricerca e innovazione nelle aziende e il più alto numero di brevetti approvati.

Secondo la società di consulenza EY, il volume degli investimenti cinesi in Germania ha toccato lo scorso anno 13,7 miliardi di dollari, un aumento del 9% rispetto ai 12,56 dell’anno precedente, mentre le acquisizioni o partecipazioni di aziende tedesche sono state 54, contro 47 in Gran Bretagna, 24 in Italia e 22 in Francia. Grande scalpore ha suscitato nel 2016 l’acquisizione dell’azienda di robotistica Kuka per 4,6 miliardi di euro, a lungo osteggiata dall’amministrazione americana che provò a sensibilizzare senza successo il governo tedesco e nel 2017 quella di Ista, società di servizi high-tech e leader degli strumenti di lettura ottica, per 4,5 miliardi di euro. Sempre nel 2016, ancora con la sponda americana, il governo di Berlino bloccò la vendita al fondo cinese Grand Chip Investment della Aixtron, un fornitore di tecnologia all’industria dei semiconduttori. Sul versante bancario, nel 2017 il gruppo cinese Hna ha alzato la sua quota in Deutsche Bank a quasi il 10%, diventando il maggior azionista singolo della più grande banca tedesca spodestando Blackrock. Lo stesso gruppo, fondato nel 2000 come holding di controllo di una linea aerea locale, la Hainan Airlines, aveva anche mostrato interesse per la Hsh Nordbank, la dissestata banca regionale di Amburgo e Schleswig-Holstein, poi venduta due mesi fa per 1 miliardo di euro a una cordata guidata dai fondo americani di private equity Cerberus e J. C. Flowers.

A tutto questo si aggiunge l’offensiva dello spionaggio industriale e politico. L’ultimo allarme è stato lanciato quest’inverno dal capo dei servizi segreti interni, Hans-Georg Maassen, che ha denunciato “tentativi in grande stile di infiltrare parlamenti, ministeri e funzionari pubblici”, mentre il ministero degli Esteri di Berlino ha osservato con disappunto l’aumentata attività di intelligence nel paese da parte di agenti cinesi.

Sigmar Gabriel, che nel precedente governo è stato prima ministro dell’Economia, poi degli Esteri, ha lasciato alla nuova Grosse Koalition un messaggio preciso: c’è il rischio di “una nuova guerra fredda per la conquista della leadership nella sfera tecnologica” e la Germania e l’Europa (che spesso per i politici di Berlino sono la stessa cosa) devono trovare “una risposta migliore rispetto a quanto fatto finora”. L’ex ministro ha lanciato l’appello a creare un vero mercato digitale continentale integrato e a difendere le tecnologie chiave mediante un inasprimento delle leggi Ue. Il pallino, in Germania, è ora in mano al nuovo governo le cui prime mosse, in molti campi, appaiono finora lente e incerte. Ma su una cosa la cancelliera, intervenendo all’inaugurazione della fiera IT di Hannover, ha promesso di fare in fretta: varare misure per difendere da acquisizioni ostili sturtup e giovani imprese strategicamente rilevanti nel campo dell’intelligenza artificiale. Sono di colpo lontani i tempi in cui, anche in funzione anti-Trump, il presidente cinese Xi Jinping veniva glorificato come alfiere del libero commercio globale. La Cina si è avvicinata troppo e Berlino adesso ne ha un po’ paura.

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