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La guerra tra Russia e Ucraina sta demolendo il modello industriale della Germania

Il modello industriale della Germania, che per anni ha goduto del gas russo a basso costo, è in crisi. E l'estrema destra prova ad approfittarne. L'analisi di Francesco Galietti, esperto di scenari strategici e fondatore di Policy Sonar.

La consistenza della destra nazionalista di AfD in Germania, così come la rapidità della sua crescita, stupisce molti osservatori. Eppure la AfD è rimasta a lungo ai margini dei ‘radar’ degli analisti, che ne registrarono un primo momento di crescita sostanziale solo alle politiche del 2015, per poi arrivare a un 10% e nel 2021. Da allora questa percentuale è pressoché raddoppiata, facendone il secondo partito tedesco a livello nazionale nelle principali rilevazioni, e in alcuni Länder dell’Est è oggi il primo partito.

C’è dell’altro: le dimensioni ingombranti dell’AfD rendono sempre più difficile tagliare fuori l’AfD dai governi locali. Le cronache politiche propongono continue discussioni tra le figure di spicco dei cristiano-democratici sulla linea da tenere rispetto alla AfD. Parlarci, a rischio di venire castigati dalla fetta di opinione pubblica per la quale l’AfD è una formazione massimalista, e dai partner statunitensi che la considerano una quinta colonna di cinesi e russi? Oppure ignorarla, ma rischiare così di assistere alla sua inesorabile crescita?

LA CRESCITA DELL’AfD E LA CRISI DELL’INDUSTRIA TEDESCA

Intervistato da UnHerd, l’economista tedesco Wolfgang Munchau, ritiene che la crescita di AfD e le ombre lunghe che getta siano figlie del modello economico tedesco e dei suoi travagli.

L’analogia tra l’Est della Germania, dove AfD la fa da padrone, e i cosiddetti flyover states americani, regge fino a un certo punto. AfD non cresce solo perché l’economia tedesca va male, ma perché è in crisi un intero modello economico basato sull’industria e che per anni ha goduto del ‘doping’ dell’energia russa a basso costo. Si è trattato di una formula molto sbilanciata che per molti anni ha dato risultati formidabili, con avanzi delle partite correnti stabilmente sopra l’8% del PIL. Di colpo, l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine a questo modello. Il plesso industriale tedesco si ritrova di colpo nudo, con un sistema di prezzi e salari che lo rendono insostenibile.

Anche in piena estate, la Germania sta continuando a sperimentare un notevole aumento dei prezzi – ad agosto si è attestato a circa il 6,1%, leggermente inferiore al 6,2% di luglio – non solo a causa della crisi energetica e alimentare, derivata dall’invasione russa in Ucraina, che ha avuto un impatto sostanziale sull’economia nazionale. Anche le restrizioni della produzione di petrolio da parte dell’OPEC, così come le misure temporanee di sostegno, introdotte l’anno scorso dalla coalizione di governo tedesca, hanno contribuito all’aumento dei prezzi. Diversi economisti si spingono ora a ipotizzare l’imminenza di una ‘quarta onda’ inflattiva legata al significativo aumento salariale previsto in tutta Europa, che potrebbe far aumentare i prezzi dei servizi in Germania nel corso del 2024.

LA SOFFERENZA DEL SETTORE AUTOMOBILISTICO

A soffrire molto è, in particolare, il settore automobilistico tedesco. Tobias Piller della Frankfurter Allgemeine ricorda che l’obiettivo della coalizione di governo tedesco di avere 15 milioni di auto elettriche entro il 2030 in Germania potrà essere centrato solo con produttori esteri.

Le case automobilistiche tedesche, infatti, possono al massimo sfornare 11,7 milioni di veicoli elettrici in Germania entro il 2030. I produttori cinesi, per contro, hanno costi più bassi di 2.000 euro per batteria per auto elettrica, il che porterà a un incremento della quota di mercato cinese in Germania. I prezzi più competitivi dei cinesi si spiega con il loro dominio dell’intera catena del valore: i cinesi detengono oltre il 50% della lavorazione delle principali materie prime per batterie, godendo così di costi considerevolmente più bassi (tra 13% e il 27% in meno) per una batteria da 60 kWh.

LA GERMANIA GUARDA ALTROVE

Per rimanere competitivi, i colossi tedeschi stanno ripensando in fretta e furia le proprie strutture produttive, spostandole dove i fattori produttivi costano di meno oppure abbondano i sussidi. Molti gruppi tedeschi aprono per esempio fabbriche negli USA per beneficiare dei sussidi senza precedenti dello IRA (Inflation Reduction Act) statunitense. Altri invece si spostano sulle sponde meridionali del Mediterraneo (il Marocco è per esempio oggetto di una pacifica ‘invasione’ di realtà industriali tedesche da qualche mese a questa parte). Altri ancora, infine, continuano a guardare verso Oriente.

Si prenda il caso del colosso della chimica BASF, che ha appena annunciato un investimento da 10 miliardi di euro in Cina, e ha anche reso pubblica l’intenzione di ridurre strutturalmente la sua presenza industriale in Europa. A farne le spese è sempre il ‘nucleo industriale’ tedesco, e a trionfare sulle sue spoglie è la AfD.

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