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Genova per me

L'articolo di Marco Ferrazzoli, giornalista e saggista

Quando accadono sciagure come quella di Genova, si prende spesso in prestito la frase di J. F. Kennedy, “Ich bin berliner”. Io, però, genovese lo sono davvero: “Mi sun zeneize”. Da lì proviene la mia famiglia materna: per la precisione dalla Valle Scrivia, tra Casella e Novi Ligure. Anche per questo ho sempre amato molto la canzone di Paolo Conte, ‘Genova per noi’, che descrive il rapporto tra la città e l’entroterra in modo poetico e struggente.

Sono stato a Genova e in Liguria decine e decine di volte, ad Albaro, Nervi, Sant’Olcese, Sanremo, Loano, Bordighera, Recco. Per trascorrervi una gran parte delle mie vacanze da bambino, per andare a trovare i miei parenti. Ci ho vissuto, fatto il servizio militare, festeggiato la vittoria ai Mondiali di calcio dell’82, ci sono tornato ogni volta che ne ho avuto l’occasione. E uno dei ricordi più vivi è quello delle successioni e degli intrecci vertiginosi dei viadotti che annunciano l’ingresso in città. Da bambino mio padre mi prendeva in giro perché mi facevano paura: geometra, professionista della topografia autostradale, vedeva in quei colossi di cemento armato un simbolo del made in Italy, dell’eccellenza ingegneristica ed edile che rendeva i nostri tecnici ambiti e contesi in tutto il mondo.

Crescendo imparai anch’io ad apprezzare la particolare bellezza, oltre che l’utilità, di quelle opere e di quel materiale. Il cemento armato è una sorta di plastica delle costruzioni. Ci ha offerto una duttilità e un rapporto tra costi e performance tali da renderlo preferibile a qualunque alternativa. Come per la plastica, però, il suo uso così ampio non è stato sempre accompagnato da responsabilità e correttezza adeguate.

Quei viadotti su cui sono passato tante volte, oltre che paura, mi ispiravano tristezza. Si affacciano su zone antropizzate in modo indiscriminato, in cui i letti dei torrenti sono stati sfruttati e tombati, costruendo quartieri grigi, dove i palazzoni si mescolano ai capannoni e agli edifici industriali… Lo sviluppo urbano di Genova, dal dopoguerra in poi, è stato quello di una città industriale del Nord costretta e costruita nei pochi interstizi lasciati disponibili dalla conformazione naturale, quando non in aperto disprezzo a questa. Il cosiddetto Biscione, composto da edifici curvi posti sulle colline sopra il Bisagno, è un chiaro esempio di come si muoveva in quei decenni la mano edificatoria.

Nel bene, quel modello ha consentito a Genova di vivere e crescere, in un’epoca in cui le attività industriali ed edili erano il motore dello sviluppo e il peso delle categorie sociali ad esse legate era determinante. Si pensi ai camalli, gli operai portuali, che a lungo hanno rappresentato un importante stakeholder cittadino, come si direbbe oggi. Nel male, quel modello ha determinato alcune criticità gravi e croniche come la suscettibilità alle cosiddette calamità naturali, che in Liguria hanno provocato vittime e danni in misura particolarmente pesante. Lo attestano incontrovertibilmente le serie storiche Polaris dell’Istituto di ricerca e protezione idrogeologica del Cnr: solo tra 2005 e 2016 per esondazioni di fiumi e torrenti sono morte 25 persone.

Comunque sia, quel modello di sviluppo urbano è entrato in crisi per molte ragioni, dalla globalizzazione alla maggior sensibilità ambientale. Nel 1992 Genova seppe sfruttare uno di quei grandi eventi sulla cui organizzazione si sollevano tanti sospetti e polemiche, le Colombiadi, che ebbi modo di seguire come inviato della Rai per Radiodue 31-31. Grazie anche a quell’occasione la città imparò a riconvertire il proprio tessuto urbano produttivo, economico, culturale. L’estesissimo centro storico fu oggetto di una riqualificazione ingente, per quanto incompleta. I carrugi, i tipici vicoli genovesi romanticamente cantati in brani come ‘Via del Campo’ di Fabrizio de André, un tempo inavvicinabile regno della criminalità, sono divenuti parte della movida e dei percorsi turistici, basti citare il restauro della Commenda di Prè. Lo straordinario patrimonio culturale, architettonico e artistico attrae ormai un movimento turistico rilevante. Persino la tanto discussa sopraelevata urbana ha trovato un suo senso, nella città rinnovata.

Ma soprattutto Genova ha riscoperto il mare, con l’apertura dell’area portuale dove ha sede uno dei principali Acquari a livello internazionale. Per godere davvero il mare, prima, bisognava arrivare alla Passeggiata di Nervi o almeno a Boccadasse, il delizioso porticciolo cantato da Gino Paoli. I genovesi hanno anche perso un pizzico di mugugno, il loro caratteristico borbottìo, la città è cambiata caratterialmente, si è animata con decine di locali che valorizzano la straordinaria gastronomia locale, ha compreso l’importanza di ospitare eventi quali Euroflora e il Festival della scienza, ha progressivamente investito in ricerca e cultura.

La sciagura del 14 agosto ha tali dimensioni umane che ora possiamo pensare solo alle vittime, ai feriti, alle loro famiglie, ai soccorritori. Ma anche le dimensioni materiali della tragedia sono enormi: si dovranno decidere le sorti del viadotto Morandi e di una parte del quartiere Rivarolo. E bisognerà capire come ristabilire la viabilità, al meglio e nel minor tempo possibile: con il ponte sono state infatti tagliate in due una città e una regione. È questa l’altra grande, irrisolta criticità di Genova. La Liguria ha una conformazione particolare, è una lingua di terra lunga ma stretta, nella quale si passa dal mare alla collina in pochissimi chilometri, e questa ricchezza ora evidenzia anche tutta la sua fragilità. La natura ha imposto ai trasporti, alla viabilità, al commercio di queste terre di correre parallele alla costa, contendendosi l’angusto spazio disponibile. L’alta velocità ferroviaria che raggiunge la città non è paragonabile ad altre tratte, poiché i binari scorrono tra le case, la roccia e il mare. L’Aurelia è una strada tutta curve a due corsie, in cui l’ingorgo è la regola. L’aeroporto non è servito a sufficienza, rispetto alla città.

Le autostrade sono le arterie del sistema circolatorio urbano, regionale e di una parte di Italia del Nordovest. Averne tagliata una significa mettere a rischio la sopravvivenza dell’intero organismo. Dalla tempestività e dall’efficienza della risposta che si darà a questo crollo dipende gran parte del futuro genovese.

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