Cosa hanno annunciato rapida successione il presidente Donald Trump e Hamas negli ultimi due giorni per risolvere la guerra in corso a Gaza in seguito al massacro del 7 ottobre?
Nella versione semplificata, un piano in 21 punti che parte con la liberazione dei pochi ostaggi israeliani ancora vivi e si conclude con la stabilizzazione del territorio tramite il coinvolgimento dei Paesi arabi moderati, previa uscita dei militanti di Hamas che accettino una sorta di salvacondotto internazionale.
In pratica, è assai più difficile capire quali punti del piano Hamas abbia effettivamente accettato e fino a che punto, dato che la prima condizionalità del suo comunicato riguarda proprio la necessità di concordare la modalità di consegna degli ostaggi. In attesa che il punto si chiarisca, si possono delineare diversi scenari.
PRIMO SCENARIO: IL DIAVOLO E’ NEI DETTAGLI
La necessità di concordare le modalità di rilascio è il primo possibile ostacolo. Se fosse condizionato alla sospensione definitiva delle azioni militari, anziché ad una semplice pausa tecnica, si tradurrebbe nella tregua che Hamas ha sempre chiesto, per potersi riorganizzare e proseguire le operazioni anche nei confronti dei gazawi che non ne accettano il controllo. Questo porrebbe Israele nella condizione di dover fare buon viso a cattivo gioco o passare per quello che respinge il piano di pace. Una variabile importante sarà rappresentata dal ruolo degli Stati Uniti, ovvero da quante pressioni saranno disposti a esercitare e su chi, al fine di portare a casa l’unico risultato che interessa davvero a Trump: una pace a qualsiasi costo.
IL PIE’ VELOCE DI ACHILLE E LA TARTARUGA
La liberazione degli ostaggi è solo il primo passo del Piano. La parte più importante sotto il profilo politico è la costruzione di un assetto post bellico stabile, in grado di coniugare l’autonomia amministrativa di Gaza e la sicurezza di Israele. Per molti, questo significa l’eliminazione, neutralizzazione o rimozione di Hamas da Gaza, in quanto organizzazione terroristica eterodiretta che destabilizza la regione per diversi motivi, non ultimi i legami con i Fratelli musulmani, l’Iran e secondo molti osservatori il Qatar.
Nel comunicato di Hamas non si rinviene però nulla del genere. Anzi, non servono particolari sottigliezze interpretative per concludere che l’organizzazione rivendica un ruolo in questo nuovo assetto. A parte i tecnocrati, nei quali è facile immaginare la presenza di una forte aliquota di simpatizzanti di Hamas, come già avviene in tutte le organizzazioni internazionali presenti a Gaza, l’organizzazione chiede esplicitamente di essere presente al tavolo arabo nel quale si costruirà il nuovo assetto. Di più: il precedente del Vittoria dell’organizzazione terroristica nelle elezioni tenuta nel 2007 nella striscia lascia comunque aperta la porta ad un suo ritorno tramite elezioni, non appena queste si terranno.
Insomma, la strategia di Hamas potrebbe essere quella di svuotare pian piano di contenuti l’accordo.
GLI ARMATI DEL PROFETA
Altro esito possibile è la penetrazione della eventuale forza di Pace fornita dai Paesi arabi moderati da parte di Hamas. In questo caso, la presenza all’interno della Striscia sarebbe l’occasione per procurarsi armi e reclutare simpatizzanti, sfruttando i canali ideologici o semplicemente attraverso la corruzione.
La stessa costruzione di una forza di polizia interna potrebbe costituire il pretesto per regolarizzare la posizione dei militanti di Hamas, alla luce del sole. Sotto la copertura di questa forza di polizia potrebbe proseguire l’addestramento militare, potenziando le capacità operative non solo per gli atti di terrorismo, nei quali esse sono già molto forti, ma anche in operazioni di tipo più convenzionale.
Ci sarebbe, è vero, una qualche forma di controllo, ma la possibilità stessa di un addestramento regolare e di accesso a equipaggiamenti quali radio criptate costituirebbe un salto di qualità pericolosissimo.
LA VARIANTE GIOLITTI
Secondo il celebre detto dello statista di Dronero, ““Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”.
Nel caso Gaza, Hamas accetterebbe il piano trans a livello formale, per poterlo poi svuotare nella sua applicazione con la collaborazione compiacente dei paesi che si sono già schierati contro Israele decidendo di riconoscere uno Stato palestinese prima ancora di conoscerne l’articolazione e i punti cardine.
In questo scenario di “lawfare”, la disapplicazione avverrebbe caso per caso, decidendo che un dato comportamento non viola gli accordi, sino a svuotarli di qualsiasi valore.
Diverso sarebbe se qualcuno, arabo, occidentale, misto non fa la differenza, riuscisse a imporre una carta costituzionale palestinese che entro i primi tre articoli dichiari esplicitamente il riconoscimento dello stato di Israele e dei suoi confini internazionalmente stabiliti, un po’ come fu fatto dopo la seconda guerra mondiale con il Giappone.
SERVE UNA SCONFITTA DI HAMAS
Un elemento centrale di ogni assetto di pace è che le parti avvertono l’accordo raggiunto come equo e che, implicitamente, accettino il risultato sul campo.
Proprio per questo, è cruciale che Hamas accetti di essere stato sconfitto. Se invece la lettura fosse quella di aver conseguito un risultato storico, sia pure dal prezzo di migliaia di vite Innocenti, la tentazione di ripetere la strategia dopo un congruo numero di anni potrebbe dimostrarsi irresistibile.
In questo senso, desta preoccupazione la mancanza di qualsivoglia cenno alla sconfitta nel comunicato stampa di Hamas.
Ovviamente si spera che il piano annunciato funzioni.
LE CONTRADDIZIONI POLITICHE E SINDACALI IN ITALIA
Le reazioni al doppio annuncio Trump-Hamas sono state più contenute di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi dopo due anni di guerra sanguinosa e, ancor più, di continue invocazioni per la pace. La conferma degli scioperi e delle manifestazioni nonostante l’annunciato accordo, sembra l’ennesima dimostrazione del fatto che la questione palestinese è sfruttata strumentalmente dagli stessi autodichiarati amici dei palestinesi.
A rendere ancora più evidente la cosa è la presa di distanza da un piano che, aldilà delle sue innegabili fragilità, sconta il peccato originale di venire da Washington, con o senza Trump.
La matrice americana, aggravata dall’approvazione israeliana, è causa sufficiente per respingere o ignorare il nuovo assetto mediorientale che si andrebbe a delineare, con annessa sconfitta della dimensione rivoluzionaria che gran parte della sinistra ha sostenuto per oltre sessant’anni e che continua a essere il riferimento ideale di quanti ritengono che il potere politico anche in Occidente debba discendere da chi riempie le piazze, anziché da ciò che riempie le urne. Una concezione molto pericolosa se si pensa che il sindacato rivendica la vittoria politica per aver portato in piazza un paio di milioni di persone – se va bene – su temi di politica internazionale ma non è stato in grado di raggiungere il quorum in un referendum che toccava direttamente il lavoro, cioè il suo ambito naturale.
In questo senso, gli incidenti che hanno devastato le stazioni ferroviarie italiane in occasione dello sciopero di venerdì sono un pericoloso richiamo al fatto che in Italia il mito della rivoluzione continua a riscuotere un certo successo. Anche perché a sinistra non lo si sia mai abiurato e a destra resta il ricordo di quando funzionò.