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Franco Marini

Processo al Pd in nome di Franco Marini

La nota di Francesco Damato fra storia e cronaca del Pd.

A meno di tre mesi dalla morte di Franco Marini, lo storico ex segretario generale della Cisl, poi ministro, segretario del Partito Popolare, presidente del Pd e presidente del Senato spentosi il 9 febbraio all’età di 87 anni, vittima anche lui della pandemia, l’ex parlamentare Giorgio Merlo ne ha descritto la figura con fedeltà pari all’amicizia in un libro delle Edizioni Lavoro che va ben oltre una commemorazione.

La rievocazione dell’impegno politico e morale di Marini è quasi la premessa di un giudizio sostanzialmente liquidatorio del Pd. Di cui diventando presidente egli fu leader ritenuto più “onorario” che reale, quale invece avrebbe meritato di essere considerato. E’ un giudizio liquidatorio conclusivo di un processo che direi scontato per quell’offesa immeritata, e persino disumana l’anno dopo la morte della moglie Luisa, riservatagli il 18 aprile 2013 con quei 151 voti negatigli a scrutinio segreto dai “franchi tiratori” del Pd per l’elezione a presidente della Repubblica. “Ci fu -avrebbe poi raccontato l’amico Pier Luigi Castagnetti- fuoco amico e in gran parte anche esplicito dei renziani e parte dei prodiani”, che poi non avrebbero tratto alcun vantaggio dall’operazione perché naufragò anche la candidatura dell’ex presidente emiliano del Consiglio.

Stento tuttavia a credere -scusate la sincerità- che non avessero partecipato al boicottaggio di Marini anche esponenti della componente post-comunista, peraltro la più numerosa, del Pd: una componente ostinatamente educata, diciamo così, durante la cosiddetta prima Repubblica a scambiare uomini della Dc come Carlo Donat-Cattin e Franco Marini per nemici, considerati abusivamente di sinistra con l’aggiunta dell’aggettivo sociale. Nel Pci l’unica e vera sinistra della Dc era considerata quella chiamata “Base”, che aveva scommesso tutto sulla cosiddetta evoluzione del partito comunista e riteneva alla fine gli alleati socialisti meno affidabili, oltre che meno numerosi.

Il giudizio liquidatorio del Pd, alla cui fondazione pure aveva contribuito Marini confluendovi con la Margherita, dove con più soddisfazione e rispetto aveva condotto precedentemente il Partito Popolare succeduto alla Dc, è rimasto nel libro di Merlo anche dopo l’avvicendamento avvenuto al vertice fra il post-comunista Nicola Zingaretti e il post-democristiano Enrico Letta. ll cui arrivo non è bastato ad attenuare l’accusa di Merlo al Pd di avere inseguito i grillini sulla strada del populismo, dell’antipolitica e di tutto il resto che ha liquefatto i partiti. Non mi spingo a immaginare Merlo di fronte all’abbraccio metaforico di ieri di Letta a Fedez.

Del Pd “plurale” al quale Marini volle credere dev’essere rimasto assai poco, diciamo pure niente, se Merlo ne ha in qualche modo testimoniato e provato -preferendo poi partecipare alla “Rete bianca” dei “cattolici in movimento”- l’articolazione in “correnti, gruppi, gruppuscoli, sottocorrenti e bande il più delle volte legate a un capo che usa queste estemporanee aggregazioni per ragioni di puro potere, a prescindere da ogni valenza politica e culturale” (pagina 105). Persino i popolari -quelli che dovevano ispirarsi a Marini- avrebbero finito per diventare una replica dei “dorotei”. Che furono la parte più opportunistica e discreditata della pur gloriosa Democrazia Cristiana.

Contro la politica “liquida e improvvisata” dei nostri tempi, alla prospettiva di lasciare senza eredi la pur “grande eredità” di Marini, vista l’occasione perduta dal Pd, Merlo preferisce quella di “disseminarla in più formazioni politiche, senza un preciso ancoraggio ad un solo partito”.

Arricchito da una prefazione dell’ex segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan e da una introduzione di Gerardo Bianco, compartecipe di Marini nelle avventure post-democristiane del Ppi e della Margherita, ma non del Pd, il libro di Merlo si distingue anche per la forza documentativa con la quale ricostruisce la continuità al vertice della sinistra sociale democristiana fra Carlo Donat-Cattin, morto nel 1991, e lo stesso Marini: altro che il quasi andreottiano di complemento, come qualcuno cercò di spacciarlo e che Merlo non ha degnato neppure di un riferimento esplicito.

Nelle elezioni politiche del 1992, con la preferenza unica imposta dal referendum dell’anno prima e Giulio Andreotti esentato dalla prova perché senatore a vita, Marini fu eletto a Roma nella lista scudocrociata con 116 mila voti contro i 114 mila dell’andreottiano Vittorio Sbardella. E nel 2006 sarebbe stato sempre e proprio Marini a contendere e strappare la presidenza del Senato a un Andreotti sostenuto dal centrodestra.

L’investitura di Marini a capo della sinistra sociale rimase quella del convegno annuale della corrente del 1990 a Saint Vincent, dove Carlo Donat-Cattin disse testualmente di “sentirsi più che mai vicino a Marini, quasi come passando il testimone… il che avverrà”, come se avesse avvertito l’epilogo della sua vita straordinaria, densa di grandi battaglie, e anche di grandi dolori.

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