Ascoltando le dichiarazioni della responsabile della commissione parlamentare sul femminicidio e dei suoi consulenti di fiducia, viene sempre invocata la necessità di favorire le donne non solo nel trovare un’occupazione, ma soprattutto nell’agevolarle nell’istruzione e nella formazione economica. Come soluzione, si raccomanda il cosiddetto empowerment.
Pochissime studiose, parlamentari e giornaliste intervengono in questo delicato momento, in cui è fondamentale creare le condizioni per approfondire la situazione economica italiana, strettamente collegata alla dimensione europea, per capire come stanno realmente le cose in merito al cosiddetto rating.
Siamo consapevoli che, in questo periodo, il rigore sui conti pubblici, la competitività e la questione demografica sono fondamentali?
Bene, obiettivamente: il Patto di stabilità e crescita europeo, gli aiuti della BCE con tassi progressivamente ma costantemente abbassati, il maggior gettito fiscale dovuto all’inflazione — effetto dei contratti con adeguamento dei salari nominali — hanno prodotto un incremento delle aliquote fiscali, che ha permesso all’Agenzia delle Entrate di garantire maggiori entrate allo Stato.
In parallelo, un Governo che ha saputo mantenere una spesa pubblica rigorosa ha portato lo spread a 80 punti, mantenendo il debito su una traiettoria di sostenibilità.
Questo dimostra quanto sia fondamentale tenere sotto controllo il rapporto tra debito e PIL. Come ha illustrato la Banca d’Italia all’inizio dell’estate, la quota di investimenti esteri in BTP è salita vicino al 35%. Sono dunque i mercati e l’economia reale ad aver dato i numeri, prima ancora delle famose agenzie di rating.
Non c’è dubbio che il PNRR abbia agevolato fortemente la crescita, aiutandoci a contrastare la spesa insostenibile del deleterio superbonus, che tuttavia ci costerà ancora molte risorse nei prossimi anni per gli effetti di trascinamento.
Per quanto riguarda l’occupazione femminile, si tratta di un aspetto fondamentale per rendere le donne autonome, e dunque meno soggette a ricatti, ma anche per contribuire a una crescita del PIL che oggi è ancora insufficiente (si stima manchi un +12%).
Molte donne restano “inchiodate” a casa a causa della bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Poche donne al lavoro significano bassa natalità, bassa crescita economica e minore competitività.
Sono convinta che, se aprissimo a una strategia per favorire l’immigrazione — anche con l’obiettivo di accogliere più lavoratrici e lavoratori immigrati — puntando sull’aumento della qualità delle competenze professionali, sul rafforzamento del settore terziario dei servizi tecnologici e su una governance dell’intelligenza artificiale (ambito in cui siamo in evidente ritardo), faremmo passi avanti fondamentali.
In una situazione economica così delicata — influenzata anche dalla necessità di rafforzare il sistema di difesa, insieme ai Paesi che condividono questa scelta — dobbiamo guardare avanti con politiche di contenimento del debito; con la riforma del sistema pensionistico, che non regge più senza un intervento sulla correlazione tra aspettativa di vita ed età pensionabile; con servizi strutturali alla persona per consentire alle donne di entrare e rimanere nel mercato del lavoro, anche attraverso agevolazioni fiscali dedicate; e con lo stop definitivo alla politica dei bonus.
Altrimenti, continueremo a perdere terreno sui tre fronti economici fondamentali: demografia, PIL, competitività.
Questo è empowerment — e non i soliti discorsi paternalistici che non mettono le donne al centro del sistema economico, mentre ci si limita a fare il bollettino quotidiano dei femminicidi.
Perché è anche con la cultura economica che si combatte la violenza.