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Tutti gli errori nella partita sul seggio vacante della Corte Costituzionale

Da un anno alla Corte Costituzionale è vacante il seggio lasciato da Silvana Sciarra per scadenza di mandato. Fatti e retroscena. I Graffi di Damato.

Ho letto che la premier Giorgia Meloni sarebbe stata pronta a partecipare alla votazione a Montecitorio, in seduta congiunta delle Camere, se avesse avuto la sensazione di un contributo risolutivo all’elezione del suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini a giudice della Corte Costituzionale. Dove da un anno è vacante il seggio lasciato da Silvana Sciarra per scadenza di mandato. E avrebbe fatto bene, secondo la mia personalissima opinione, non foss’altro per motivi di coerenza rispetto all’iniziativa assunta nei giorni precedenti, e finita sui giornali per una fuga di chat telefoniche, di mobilitare la maggioranza per restituire alla Corte la sua completezza. Prima che scadano, fra poche settimane, altri tre giudici di elezione parlamentare, con la conseguente apertura di un sostanziale mercato politico per la distribuzione dei seggi fra i partiti e i loro rispettivi gruppi parlamentari. Un mercato che, sempre a mia modestissima opinione, non sarebbe il massimo per la credibilità della politica nei rapporti con un’opinione pubblica sempre meno attratta dalle urne.

I pacchetti su cui negoziare, generalmente dietro le quinte, senza alcuna trasparenza, diventano pacchi indigeribili agli occhi, e allo stomaco, di molti elettori purtroppo abituati da una trentina d’anni ad una campagna di demonizzazione e discredito della politica. Una campagna sfociata nella riforma imposta dai grillini nel loro momento di maggiore forza su una riduzione demagogica della consistenza delle Camere. Scambiate dal MoVimento 5 Stelle per la famosa scatola di tonno da aprire per svuotare. E riempirla poi, con il limite massimo dei due mandati ancora difeso e voluto da Beppe Grillo, anche a costo di una scissione del MoVimento per via giudiziaria, con un personale politico tanto rinnovabile, per carità, quanto impossibilitato, con minore carità, a maturare una competenza all’altezza dei problemi del Paese.

Quando è stata informata non solo e non tanto dell’aventinismo adottato dalle opposizioni per vanificare anche la ottava votazione per il ripristino del plenum della Corte Costituzionale quanto delle assenze nella maggioranza, che l’allontanavano ancora di più dai 363 voti necessari per l’elezione del candidato, a questo punto coperto dal ricorso alla scheda bianca, la premier è rimasta nel suo ufficio di Palazzo Chigi. E il suo nome è comparso sul tabellone di Montecitorio solo per la mancata risposta all’invito a votare.

In quel tabellone si è plasticamente materializzato così tutto il carattere paradossale della vicenda innescata proprio dalla Meloni. Che si è conclusa infelicemente per lei, d’accordo, ma male anche per le opposizioni unite solo nell’arroccamento ostile, in quella che il Riformista ha definito criticamente la “strategia dell’astensione”, contro quella dell’attenzione proposta nel 1968 da Aldo Moro a tutti i partiti per cercare di costruire meglio il futuro della politica italiana.

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