Sulla competizione polacca è sceso il silenzio elettorale, ma le polemiche e i toni accesi, le violenze verbali che hanno segnato il confronto non si sono affatto depositati. Questa campagna elettorale, definita da troppi osservatori con troppa enfasi come la più importante dal 1989, ha lasciato un retrogusto amaro.
IL DUELLO KACZYNSKI-TUSK
È stato un duello, all’ultimo sangue più che all’ultimo voto, fra i due protagonisti degli ultimi vent’anni della politica polacca. Il momento (si spera) finale di una faida che si trascina da due decenni e che oggi, di fatto, blocca il paese in una guerra di tipo personale. Jaroslaw Kaczynski, padre più o meno padrone del partito nazionalista-conservatore Pis al governo da otto anni e Donald Tusk, redivivo leader dei liberal-conservatori di Piattaforma civica, oggi alla guida di una coalizione allargata. Entrambi provengono dall’eroica stagione di Solidarnosc (“Sono tutti figli miei”, ama ricordare senza troppo orgoglio Lech Walesa), entrambi sono stati primi ministri, entrambi guidano con egocentrismo i loro partiti.
In realtà è un déjà-vu, perché i due si scambiano accuse e controaccuse da almeno vent’anni. Per Kaczynki, Tusk è un traditore, un infiltrato europeo che vuol ridurre la Polonia alla schiavitù di Berlino, Bruxelles e da ultimo anche di Mosca. Per Tusk, Kaczynski è un malvagio che merita la prigione, che porterà la Polonia fuori dall’Ue trasformandola in un’autocrazia simil-russa.
Così i due sono andati avanti in una competizione giocata sul filo dell’emotività, dell’invettiva reciproca. Una rappresentazione grottesca di uno scontro di civiltà, quando sarebbe bastato confrontarsi sulle due idee di Polonia che le parti contendenti avevano in mente per il futuro.
I PROBLEMI DELLA POLONIA, LA TIGRE DELL’EST
Di temi concreti, d’altronde, ce ne sarebbero stati a iosa. Per la prima volta da più di un decennio, la Polonia affronta una campagna elettorale in una fase di rallentamento economico. Finora questa sorta di tigre dell’est aveva leggiadramente evitato tutta la catena di crisi che attorno agli anni Dieci aveva flagellato il resto d’Europa. L’economia polacca aveva schivato quella finanziaria del 2008-2009 e aveva osservato a distanza quelle dei debiti sovrani e dell’euro che aveva devastato le economie del sud Europa e infiammato il confronto all’interno dell’area della moneta unica. Forte di crescite di Pil da paese asiatico, la Polonia si era consolidata come economia emergente del centro Europa, attirando investimenti esteri nonostante la cifra nazionalistica dei suoi governi a partire dal 2015.
Ma la pandemia prima e soprattutto la guerra russa poi hanno anche qui cambiato le carte in tavola, e la crisi energetica ha investito il paese con tutta la sua forza, portandosi appresso un’inflazione che ha colpito più forte che altrove e che, dopo il picco dello scorso febbraio, resta comunque più alta che altrove. Anche perché il governo, assecondando la propria vocazione alle politiche sociali, ha aumentato gli stipendi, favorendo una tenuta dei consumi ma contribuendo allo stesso tempo a rinfocolare l’inflazione.
PIÙ SPESA PUBBLICA
Per i prossimi mesi tutti i partiti hanno promesso più spesa pubblica. Una stima prevede che, se molte delle promesse fatte verranno poi implementate, il deficit pubblico si attesterà attorno al 5% del Pil. Un dato inedito per un paese abituato e tenere in ordine i bilanci, che tuttavia non sembra per ora spaventare i mercati: i bond polacchi appaiono solidi e vengono piazzati senza problemi.
Il Fondo monetario internazionale ha di recente pubblicato le sue previsioni anche per la Polonia. Le stime sono deludenti, come per quasi tutti i paesi europei, e in calo rispetto a quelle di qualche mese fa. Quest’anno il Pil polacco crescerà appena dello 0,6%, mentre una ripresa più consistente (+2,2) è possibile nel 2024. Ma con le incertezze geopolitiche che si moltiplicano le previsioni economiche a più lungo termine assomigliano sempre di più a quelle meteorologiche.
Con questi chiari di luna il futuro governo dovrà far di conto con una situazione finora inedita: una crescita nel migliore dei casi rallentata con la quale sarà complicato non solo coprire le maggiori spese sociali promesse, ma anche quelle militari che invece sono necessarie.