L’imprevisto è più significativo dell’unica conferma. Il voto indigeno rincorre il caudillismo populista e supera il conservatorismo liberista in una partecipazione alle urne ampia ma molto frazionata. Andrés Arauz, il candidato di centro-sinistra erede dell’ex presidente Correa esiliato forzosamente in Belgio, ottiene il 32,1 per cento dei suffragi nel primo turno elettorale di domenica scorsa in Equador. È nettamente in testa alla folta pattuglia degli altri 15 concorrenti. Andrà al ballottaggio del prossimo 11 aprile. Ma il banchiere Guillermo Lasso, che ha investito milioni di dollari sul proprio nome e al quale i pronostici attribuivano il secondo posto se non il primo, sembra destinato a restare fuori gara. Il cui esito esclude al momento la destra, ma resta incerto.
Restano da scrutinare poche decine di migliaia di schede sul territorio nazionale (su oltre dieci milioni di votanti) e quelle dall’estero. Ma sia pure per un margine molto ridotto (meno di un punto percentuale), l’esponente del movimento di Unidad Plurinaciònal Pachakutik, Yaku Perez, un ingegnere cinquantenne dell’etnia Kichwa-Kañari, è al secondo posto con qualche decimale oltre il 20 per cento. Ed è l’avversario più temuto da Andrés Arauz, in quanto da sempre critico implacabile dei governi Correa, che accusa di corruzione. Ricevendone in cambio quella di demagogia. Arroccata sull’impervia geografia andina, compatta e severa com’è il suo stile di vita, la cultura dei popoli originari marca fortemente una diversità etica prima ancora che politica da quella urbana della costa, dominata dal meticciato e dalla popolazione bianca.
Fermo restando il fatto che se viene confermato l’accesso del leader indio al secondo turno, su di lui con ogni probabilità confluirebbero i suffragi del socialdemocratico Xavier Hervas, un imprenditore informatico che ha raccolto quasi il 16 per cento (un’altra sorpresa!), oltre quelli della sinistra per affinità sociale e di valori, nonchè di parte della destra in odio a Correa e ai suoi alleati. Appare così ben comprensibile la ragione per cui dall’esilio forzato di Bruxelles, l’ex capo dello stato si sia affrettato con tono oracolare ad assicurare: “Lasso prevarrà su Yaku grazie ai voti della costa, tranquilli che al secondo turno avremo Arauz-Lasso”. E Yaku Perez si è immediatamente rivolto ai suoi, gridando all’imbroglio: ”Vogliono prendersi palazzo Corondelet con la prepotenza: vogliono escludermi, vigiliamo con la massima attenzione sullo scrutinio!”.
Il fronte auspicato da Correa preferisce misurare la propria politica statalista contro il modello privatista del banchiere Lasso. All’indignazione sociale per un’austerità a senso unico imposta come rimedio alla crisi economica e fiscale che ha reso impotente lo stato, il banchiere propone il consueto e finora puntualmente fallito rimedio della riduzione d’imposte e l’ipotetica possibilità di attrarre investimenti dall’estero (che interessa essenzialmente i gruppi imprenditoriali della costa), per creare milioni di nuovi posti di lavoro. In comparazione, le promesse d’intervento sociale diretto fatte da Arauz appaiono più convincenti. Quanto ai più che fondati timori di ripresa dell’inflazione, poi si vedrà… Le risorse minerarie e la ripresa dei prezzi internazionali del petrolio in seguito alla ripresa economica post-pandemia, voci essenziali dell’export equadoriano, nutrono le speranze di tutti.
Il secondo turno — come non di rado accade ovunque — potrà disegnare una mappa politica sostanzialmente rinnovata, rispetto al frazionamento seguito alle turbolente vicende giudiziarie di Correa e al fallimento del delfino Lenin Moreno, convertitosi poi in suo implacabile nemico, e a propria volta travolto infine dall’inefficienza e dalla corruzione. La memoria delle stragi compiute dal Covid, delle bare dei morti abbandonate sui marciapiedi degli abitati e perfino nella periferia della ricca e cosmopolita Guayaquil nel silenzio d’un governo assente, hanno accompagnato la maggioranza degli elettori fin davanti alle urne. Lo scontro diretto porterà a una nuova polarizzazione, ma stavolta in assenza di un caudillo abile, deciso e disinvolto come Rafael Correa, costretto per il momento ad assistere di lontano.