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Covid Germania

Che cosa non va nell’economia tedesca. L’approfondimento di Mennitti

Estratto dell'analisi a cura di Pierluigi Mennitti pubblicata sull'ultimo numero dell'edizione cartacea di Start Magazine 

 

In agosto l’indice che misura il clima dell’attività economica percepita dalle imprese in Germania è sceso a 94,3 da 95,7 segnalato a luglio. L’attesa degli economisti era per una flessione più contenuta, a quota 95. A spingere l’indice verso il basso – come emerge dal dato pubblicato il 26 agosto – sono sia le aspettative che la situazione corrente. Si tratta del livello più basso registrato dall’indice Ifo dal novembre del 2012 e rischia di essere un’ulteriore conferma dei timori di recessione dell’economia tedesca.  (Redazione Start)

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Fu Gerhard Schröder a vivere da cancelliere l’ultima crisi economica tedesca. Correvano i primi anni Duemila e, con i disoccupati sulla soglia dei 5 milioni, la Germania era considerata il malato d’Europa, condannato a un declino inevitabile. Poi arrivarono le riforme del mercato del lavoro e dell’assistenza pubblica, che diedero alle imprese il segnale della riscossa. Schröder ne fu l’artefice ma a riscuoterne l’incasso politico fu Angela Merkel, beneficiaria di un decennio d’oro di crescita e supremazia sui mercati globali.

Oggi, dopo i primi segnali di raffreddamento dell’economia, la Germania si riscopre spaventata e intimorita dalla prospettiva che si avverino le preveggenze delle inascoltate Cassandre che, ancora in tempi di vacche grasse, invitavano governi e imprese a evitare eccessivi trionfalismi e ad attrezzarsi per non perdere il treno dell’innovazione.

La primavera 2019 dell’economia tedesca è stata piuttosto rigida. Il governo ha ridotto la stima di crescita allo 0,5 per cento. Il ministro delle Finanze ha annunciato un calo delle entrate fiscali per 75 miliardi fino al 2023. Gli ordini industriali sono crollati a febbraio segnando un -4,2%, il ribasso più forte da due anni. Dati solo parzialmente ammorbiditi dalla leggera ripresa della crescita registrata nel primo trimestre (+0,4) e dal buon andamento del mercato del lavoro: ad aprile i disoccupati sono scesi a 2,2 milioni (5,2%).

I primi segnali di rallentamento hanno riesumato in Germania il fantasma del Giappone, potenza economica in declino. “Gli anni grassi sono finiti”, ha strombazzato lo Spiegel in copertina poche settimane fa, accompagnando il titolo con la caricatura di un’aquila che prova a scolarsi l’ultimo goccio di champagne da una bottiglia inesorabilmente vuota. Il modello tedesco è superato, invecchiato, finito? Aver puntato tutto sulle esportazioni, congelando i salari e quindi anche i consumi interni, aver frenato gli investimenti in nome del debito zero (Schwarze Null), si rivelerà esiziale in tempi di guerre commerciali, di Brexit e di arretramento della globalizzazione?

Per Clemens Fuest, presidente del prestigioso istituto Ifo di Monaco, il dato più preoccupante è quello degli ordini industriali. Lo definisce “una cesura”. L’indebolimento dell’industria è iniziato nella primavera 2018 con il settore dell’auto e poi si è allargato a tutti i settori: “Viviamo una situazione congiunturale sottosopra”, ha spiegato in un’intervista all’Handelsblatt, “per anni siamo stati abituati al fatto che export e industria andavano a gonfie vele mentre l’economia interna stentava. Oggi è esattamente il contrario”. La flessione si ripercuote sulla catena dei fornitori europei: Italia e Francia sono ai primi posti, poi ci sono i paesi confinanti dell’Europa centro-orientale, legati a doppio filo al comparto automobilistico tedesco.

Cambiano le regole del gioco globale e la Germania si scopre impreparata. Nel breve termine deve sperare che si riesca a evitare una Brexit senza accordo e che la guerra commerciale non divampi del tutto: che Usa e Cina trovino un compromesso e che Donald Trump receda dal proposito di applicare dazi del 25% sulle auto tedesche. Fuest consiglia al governo di Berlino di cedere alla richiesta Usa di portare al 2 per cento del Pil il contributo alle spese della Nato ed evitare controproducenti bracci di ferro. Ma è sul lungo periodo che il modello tedesco rischia di perdere la sfida con il futuro.

Come grande potenza manufatturiera l’economia tedesca sarà sempre esposta agli umori delle esportazioni. Smantellare il modello di Exportnation è operazione difficile e che nessuno mette in conto. I critici, come l’ex leader della sinistra Oskar Lafontaine che ha parlato di nazionalismo dell’export cresciuto alle spalle degli altri paesi europei, sono pochi e marginali. Semmai le proposte vertono su un suo ammodernamento, una sorta di versione 2.0.

Ma l’impresa è resa difficile dal ritardo accumulato verso Usa, Cina e Corea del Sud sul versante dell’innovazione e della tecnologia. “L’industria tedesca è troppo novecentesca”, scriveva un anno fa Bloomberg, notando prima di tutti la ruggine depositatasi sul motore tedesco, mentre ancora rombava a pieni giri. L’onda della digitalizzazione è passata accanto alla Germania senza che le imprese provassero a cavalcarla. Nessuno dei quindici più grandi colossi tecnologici globali ha marchio tedesco (il primo, Sap, compare al 18esimo posto). E la spinta innovativa è al palo: nell’ultimo anno i brevetti tedeschi sono stati appena 176, contro i 526 degli Usa e i 1.306 della Cina.

La politica ha trascurato l’industria, è il giudizio di Fuest, utilizzando male le risorse generose degli anni di boom. Si dovevano rilanciare gli investimenti pubblici e privati per ammodernare ogni tipo di infrastrutture, spendere in ricerca e sviluppo, fare una seria riforma fiscale. Riforme, come quelle che coraggiosamente intraprese Schröder 15 anni fa. Merkel invece ha sposato un cinico continuismo, proprio mentre dettava i compiti agli altri paesi europei.

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