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Tutti i nuovi tafazzismi italici contro Leonardo, Fincantieri e non solo

L'editoriale di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa

Analisi Difesa ha raccontato e commentato in più occasioni le ambiguità della politica italiana in tema di esportazione dei prodotti della Difesa, occupandosi negli ultimi mesi del dibattito sulla vendita della fregate e altri armamenti l’Egitto o sui contratti annullati per le bombe di RWM Italia ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, senza esitare a mettere in luce il rischio che l’approccio ideologico utilizzato nei confronti di queste nazioni e basate su valutazioni legate al rispetto dei diritti umani avessero in realtà l’obiettivo di affossare l’industria della Difesa italiana.

Un obiettivo perseguito in modo “tafazziano” da alcuni ambienti politici legati alla Sinistra e a M5S ma pure dal Ministero degli Esteri, che sempre più spesso appare autoreferenziale e in molti casi “scollato” da valutazioni oggettive circa gli interessi nazionali.

Il risultato è che la nostra industria della Difesa rischia di perdere importanti commesse e di venire tagliata fuori dai mercati più ricchi proprio nel momento in cui, con la crisi determinata dal Covid, il crollo dell’export rischia di provocare la perdita di migliaia di posti di lavoro ultra qualificati e minaccia la sopravvivenza stessa di molte aziende.

Sul tema dei diritti umani è facile osservare come la gran parte delle nazioni con cui l’Italia intrattiene rapporti diplomatici, politici, commerciali e militari non siano esenti da critiche, anche se nessuno sembra preoccuparsene.

Curioso che molti di coloro che all’Egitto rimproverano il Caso Regeni o quello di Patrick Zaki e ai sauditi ed emiratini i bombardamenti di civili nello Yemen siano i fautori delle più strette intese con la dittatura comunista cinese che ha gravissime responsabilità nella diffusione il Covid nel mondo e reprime ferocemente ogni dissenso, soprattutto a Hong Kong e nel Sinkiang.

Potremmo discutere a lungo se in Yemen siano più cattive le bombe saudite che uccidono anche civili Houthi o le granate degli insorti che ammazzano anche civili nella città assediata di Marib, oppure i missili e i droni iraniani lanciati contro obiettivi civili territorio saudita.

Di certo è curioso osservare che l’Aeronautica degli Emirati farà a meno delle bombe italiane di RWM ma si doterà presto dei cacciabombardieri F-35A di Lockheed Martin, (vendita autorizzata dall’amministrazione Trump e poi confermata da quella di Joe Biden dopo una breve sospensione) che verranno certo forniti completi di ordigni.

La lista di nazioni poco attente ai diritti umani e alla democrazia con cui intratteniamo relazioni anche militari sarebbe lunga e include quasi tutti gli stati africani e asiatici, la Turchia (nostro alleato nella NATO) e il Qatar (con cui abbiamo un accordo di ferro di cooperazione militare).

Se poi volessimo punire con lo stop all’export militare a chi ha provocato “danni collaterali” con i bombardamenti aerei i primi con cui chiudere la cooperazione militare dovrebbero essere gli Stati Uniti.

Osservando la questione nell’ottica dell’interesse nazionale si nota che tutte le potenze, anche quelle regionali, hanno un solido export militare e puntano a potenziarlo. Senza scomodare i cinque grandi che siedono con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, basta guardare al boom delle esportazioni da parte della Turchia, che coincide con una posizione di maggiore evidenza di Ankara su diversi scenari, compresi quelli bellici.

L’export militare caratterizza la forza e la capacità di influenza e penetrazione della nazione e questo dovrebbe valere anche per l’Italia che siede tra le prime otto potenze mondiali.

Appare quindi chiaro come dietro lo scudo ideologico del pacifismo da parrocchia o da casa del popolo si nascondano maldestramente interessi diversi, tesi a ridurre l’export dell’industria della Difesa italiana (circa il 70% del suo fatturato) favorendo i competitor stranieri interessati ad aumentare le quote di mercato ma in prospettiva anche a mettere le mani, a prezzi di saldo, sulle nostre aziende per acquisirne il know-how e sbarazzarsi di rivali di rilievo.

Nulla di sorprendente in un’Italia in cui da sempre abbondano i filo-stranieri ma dove vi è una carenza strutturale di filo-italiani. Non è un caso che i primi a preoccuparsi apertamente (con ampi dibattiti sui media) dei successi dell’industria della Difesa italiana in Nord Africa e Medio Oriente siano i francesi, che godono peraltro di molti fans negli ambienti politici e ministeriali che maggiormente contrastano l’export militare italiano.

Fans che avranno forse brindato, con champagne ovviamente, al successo conseguito ieri da Parigi che si è aggiudicata una nuova commessa per 30 caccia Rafale in Egitto, dove Leonardo punta a vendere caccia Typhoon e addestratori M-346 e Fincantieri altre 4 Fremm.

Un interessante articolo di Vincenzo Nigro su Repubblica del 27 aprile (“Embargo e contratti stracciati. La missione di Di Maio per ricucire con gli Emirati”) ha messo in luce in modo impietoso i risultati raggiunti dagli sforzi compiuti da componenti del governo e del parlamento per affossare l’export della Difesa.

“Già in crisi con Egitto e da poco con la Turchia, l’Italia vede chiusi i mercati di Emirati e Arabia Saudita” scrive Nigro ricordando che il ministro degli Esteri “ha imposto al suo ufficio UAMA (che concede le autorizzazioni alle esportazioni militari) di bloccare anche i prodotti già autorizzati per gli Emirati” con un chiaro riferimento alle licenze dei contratti di RWM Italia.

Come abbiamo più volte sottolineato su Analisi Difesa lo stop a queste ultime non ha salvato vite yemenite ma solo fornito commesse e garantito posti di lavoro ad aziende site in Brasile, Turchia o Corea del Sud invece che in Sardegna.

“Gira voce a Roma – continua l’articolo di Nigro – che il giorno successivo all’embargo il principe Mohamed bin Salman si sia fatto allineare su una grande scrivania tutti i contratti con l’Italia e abbia iniziato a tagliare selvaggiamente, dando ordine di assegnare ad altri Paesi le commesse.

Gli Emirati hanno fatto quasi lo stesso”, continua l’articolo indicando lo stop al centro dimostrativo dei convertiplani AW609, all’ammodernamento degli MB-339 della pattuglia acrobatica locale e al possibile acquisto degli addestratori M-346, tutti prodotti di Leonardo.  E con l’Egitto, se possibile, va anche peggio. Parlando del ministro Di Maio l’articolo di Repubblica (che non ha ricevuto smentite), conclude aggiungendo che “al Cairo il ministro degli Esteri, Shukri, non accetta più di rispondergli al telefono”.

Insomma, chi ha fatto di tutto per distruggere l’export della Difesa italiano può oggi ben dirsi soddisfatto. In questo contesto non si tratta nemmeno di subire i gol della concorrenza sui mercati ma di pagare il conto dei nostri numerosi autogol, frutto della rinuncia ad applicare un approccio pragmatico e aderente agli interessi nazionali che tutti i nostri competitor applicano senza esitazioni.

(Articolo pubblicato su Analisi Difesa, qui la versione integrale)

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