Caro direttore,
all’indomani della pubblicazione della sentenza del Tribunale (Grande Sezione) dell’Unione europea il Corriere della sera ha scritto: “É un colpo grave alla reputazione di Ursula von der Leyen, la critica aperta di un metodo di governo dove la scarsa trasparenza contraddice la narrazione della presidente della Commissione di Bruxelles”. Cito le parole di Paolo Valentino non solo perché come sai si tratta di un giornalista di grande esperienza con un curriculum, anche di studi, di primissimo ordine, ma anche perché Valentino conosce come pochi grandezze e miserie delle istituzioni comunitarie.
Ma è davvero un “colpo grave alla reputazione?”. Dipende. Chi leggerà la sentenza ci troverà l’esposizione di tutti gli espedienti sfacciati messi in opera dalla Commissione europea per impedire che l’opinione pubblica venisse a conoscenza del contenuto dei messaggini scambiati tra Albert Bourla, Ceo della Pfizer e, verrebbe da dire, il Ceo dell’Unione europea Ursula von der Leyen.
Ma la sentenza del Tribunale dell’Ue è stata resa nota il 14 maggio scorso, di prima mattina. Il tg dell’ora di pranzo de La7 l’ha ignorata nella “copertina” e ne ha dato sobria notizia in coda a tutti gli altri servizi, prima di passare allo sport. Il giorno dopo nessuno dei quotidiani mainstream in Italia (Corriere, Repubblica, Il Sole 24) né Handelsblatt né Financial Times, per dire due tra i principali fogli economico-politico-finanziari europei, hanno ritenuto che una sentenza che screditava la burocrate più potente d’Europa non meritasse nemmeno uno “strillo” in prima pagina. Del resto, l’invereconda commedia di qualche anno fa, dei contratti con i produttori di vaccini che la Commissione fece circolare sbianchettati nelle parti più caratterizzanti allora non suscitò non dico indignazione, ma nemmeno ilarità. Rifiutarsi di renderli pubblici sarebbe stato più dignitoso, ma la dignità non è un “valore” riconosciuto nel mondo delle istituzioni europee, mentre la trasparenza, dalle stesse parti, è un valore strenuamente proclamato e ancor più strenuamente tradito. Quanto all’ilarità, il ceto giornalistico europeo preferisce riservarlo ad altri argomenti, ma rispetto alle sacre istituzioni di Bruxelles la critica scanzonata è inammissibile: è peggio dell’“euroscetticismo”, qualunque cosa significhi questa parola vacua utile solo a convogliare direttamente nel cestino della carta straccia qualunque opinione non conforme alla vulgata promossa da Bruxelles.
Lo stesso Valentino, tuo stimabilissimo collega, da un lato ha prodotto una cronaca onesta e comprensibile dei fatti ma dall’altro si è sentito in dovere di scrivere che, di là della reiterata opacità della condotta di von der Leyen, “Nessuno può toglierle i grandi meriti conquistati al tempo della pandemia”, un giudizio che – condivisibile o meno – col tema della vertenza che il New York Times, insieme a una sua giornalista, aveva promosso contro la Commissione di Bruxelles ora soccombente davanti al Tribunale Ue, c’entra pochino. Ho scritto “si è sentito in dovere” perché sono dell’opinione che questi delicati riguardi nei confronti della bi-presidente della Commissione europea riflettano piuttosto la linea editoriale dei media mainstream e tra questi del Corriere, una linea che nessun professionista serio e esperto dei media può permettersi di ignorare, a meno di avere già in tasca la lettera di dimissioni (ma ripeto, direttore, questa è una mia opinione: può anche darsi che Valentino sia un entusiasta di von der Leyen, personalmente convinto che la “baronessa” abbia gestito come meglio non si sarebbe potuto le problematiche degli anni del Covid).
Altri quotidiani mainstream hanno fatto molto peggio del Corriere, la Repubblica per esempio ha pubblicato, sulla vicenda, una cronaca striminzita di cui solo chi conosceva i precedenti della storia dei messaggini che per un anno e mezzo si sono scambiati Bourla e von der Leyen riusciva a capire qualcosa.
Insomma, se parliamo di opinione pubblica (l’opinione all’interno della “bolla” di Bruxelles è un’altra storia), la “reputazione” di von der Leyen anche questa volta, come già anni fa per una sua tesi di laurea, è uscita indenne da quello che teoricamente poteva diventare uno scandalo ma che la benevolenza dei media mainstream ha trasformato in un bengalino bagnato. A questo punto, direttore, mi farai notare che questa non è una notizia. In effetti la notizia sarebbe che qualcuno (l’0mbudsman europeo? La Corte dei conti europea? Voglio esagerare: il Parlamento europeo?) siano riusciti a ottenere da palazzo Berlaymont e a divulgare numeri completi e ordinati per categorie di beneficiari sul (nostro) denaro sparso in questi anni dalle autorità comunitarie in contributi, conferimenti, investimenti pubblicitari e apporti monetari ad altro titolo a associazioni, fondazioni, media, ong, organismi universitari e singoli ricercatori (l’elenco è ovviamente esemplificativo) su progetti di ricerca e altre iniziative su temi anche vagamente inerenti all’Europa. Solo per le ngo, la Neue Zürcher Zeitung riferiva, in un recente réportage, che negli ultimi tre anni l’Unione europea ha distribuito complessivamente 7 miliardi di euro a 12 mila organizzazioni non governative, pari a poco meno di 200 mila euro l’anno per ciascuna.
Posto il calo di popolarità della prospettiva europea negli ultimi anni, verrebbe da dire che queste ignote e probabilmente per sempre inconoscibili somme distribuite per fabbricare consenso non sembrerebbero un granché come investimento, ma non voglio fare l’ingenuo più di quanto già sia: per sacralizzare la figura di Zelensky e demonizzare quella di Putin o di Trump, per fare dell’Ucraina la “trincea della democrazia in Europa” e condannare all’ostracismo l’elettorato di destra, per la crociata del green deal della scorsa legislatura europea come pure per la chiamata al riarmo degli ultimi mesi, dal punto di vista delle istituzioni comunitarie e di von der Leyen che le governa su delega di classi politiche screditate nelle componenti essenziali, è un fior di buon affare. Affare che ha trovato adeguata espressione nella condanna all’oblio di una sentenza del Tribunale Ue, che avrà sì consacrato nella forma di “verità giudiziaria” l’evidente allergia di von der Leyen a ogni forma di controllo democratico, ma ha soprattutto, benché implicitamente, inchiodato alcune delle istituzioni comunitarie, dal Parlamento di Strasburgo alla Corte dei conti del Lussemburgo, alla loro costosa inutilità, e la Commissione europea al ruolo di paravento delle pulsioni autoritarie di von der Leyen, dispensandola dal fastidio di giustificare in prima persona le sue personali, censurabili e censurate condotte nella gestione degli “affari” europei.
Che poi i media europei tengano bordone a queste pratiche che finiscono per negare ai popoli d’Europa anche solo la spiegazione delle scelte che incidono sul loro destino, spiegazione surrogata da quel che si può definire solo come una martellante “pubblicità redazionale” dei media mainstream, è un dato di fatto che non mi sento di giudicare. In un continente che da tempo ha rinunciato alla regola della divisione dei poteri, principio costitutivo dei regimi democratici, e ha di fatto elargito a una élite burocratica politicamente irresponsabile il potere sostanziale di adottare le decisioni cruciali per il futuro dell’Europa, non si può pretendere che gli operatori dell’informazione, ormai prevalentemente proletarizzati come anche un recentissimo comunicato del Cdr del Corriere della sera lascia intendere si facciano, per virtù propria, carico di un’informazione libera e indipendente.