Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, del Pd, aveva appena tradotto in politica interna i risultati del lungo e tormentato Consiglio Europeo vantando il “rafforzamento” del governo in carica e già il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio decideva di partecipare alla festa gustandola con un’intervista a Repubblica.
Più che l’abilità negoziatrice del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il suo ex vice dalla Farnesina ha voluto rivendicare il merito di avere lavorato “dietro le quinte” sin dall’anno scorso, quando da capo ancora del Movimento 5 Stelle decise di far partecipare i suoi europarlamentari all’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della nuova Commissione di Bruxelles. Al vertice appena concluso, con la conferma dei 750 miliardi di euro del cosiddetto “Recovery fund”, sia pure riducendo i soccorsi a fondo perduto e aumentando quelli a prestito, non si sarebbe fatto altro — secondo Di Maio — che raccogliere i frutti di quel lungimirante appoggio alla candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea.
Peccato che di quella lungimirante decisione non siano poi stati tanto grati a Di Maio i suoi amici o compagni di movimento, costringendolo di fatto dopo qualche mese a rinunciare a guidarli, e poi rimuovendolo anche dall’incarico di capo della delegazione pentastellata al governo. Che è passato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede su designazione, proposta e quant’altro del “reggente” del quasi partito Vito Crimi.
Forte dei soldi in arrivo dall’Europa, Di Maio ha detto all’intervistatrice di Repubblica, Annalisa Cuzzocrea, che ora bisogna ridurre le tasse perché “se non diminuiamo il carico fiscale, i consumi non ripartono”. E se i consumi non ripatiranno — è la prosecuzione sottintesa del ragionamento — saranno inutili, o quasi, tutti i piani di investimento e di riforme che Conte si appresta a preparare ricorrendo alla solita task force, cui chissà se accetterà la partecipazione di qualcuno o qualcuna delle opposizioni, come si sono affrettati a chiedere i forzisti di Silvio Berlusconi. Dei quali lo stesso presidente del Consiglio ha più volte apprezzato “la responsabilità”, mancata invece ai leghisti di Matteo Salvini e ai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
L’intervistatrice ha opportunamente ricordato al ministro degli Esteri che “con i prestiti europei non possiamo ridurre le tasse” senza riarmare la vigilanza, l’ostilità e quant’altro degli olandesi di Mark Rutte e degli altri “frugali” che a Bruxelles alla fine hanno ripiegato in cambio di una riduzione dei loro contributi all’Unione. Ma Di Maio ha eluso l’interruzione rispondendo che “quando parlo di riforma fiscale mi riferisco a qualcosa che serve al Paese, al di là della trattativa europea”, come se non servissero all’Italia i soccorsi appena negoziati con le loro condizioni e procedure.
Per niente elusiva è stata invece la risposta di Di Maio alla domanda sui prestiti europei immediatamente disponibili, a tassi d’interesse particolarmente vantaggiosi, per il potenziamento del sistema sanitario messo a dura prova dall’epidemia virale: prestiti che il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha appena riproposto di usare e che attendono con interesse, per le loro competenze, tutte le regioni, non solo quelle dove si voterà il 20 settembre.
“Conte — ha risposto Di Maio — ha detto e confermato in queste ore che l’Italia non ne avrà bisogno. Non abbiamo motivo di dubitare delle sue parole”. In effetti, così ha detto già a Bruxelles, a conclusione del Consiglio Europeo, il capo del governo italiano definendo “morbosa” l’attenzione che viene ancora riservata a questo tipo di finanziamento — noto ormai con la sigla del meccanismo europeo di stabilità, Mes — dai piddini e dai renziani all’interno della maggioranza, e dai forzisti e dai radicali europeisti della senatrice Emma Bonino all’esterno.
Il no di Di Maio al Mes è funzionale, diciamo così, alla compattezza e alla propaganda dei parlamentari pentastellati, rimasti in questo campo fermi rispetto alla “evoluzione” vantata dal ministro degli Esteri su altri versanti, a cominciare dalla già ricordata partecipazione alla maggioranza europarlamentare per l’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles. Ma è tutta da verificare nelle aule parlamentari, dove sarà difficile a Conte sottrarsi ad un passaggio con tanto di votazione, se quel no sarà funzionale anche alla tenuta e alla sopravvivenza della maggioranza e del governo.
A guastare in qualche modo la festa al presidente del Consiglio Conte dopo la maratona europea a Bruxelles sono state anche le risposte di Di Maio alle domande di Annalisa Cuzzocrea sui temi divisivi delle alleanze locali dei grillini, in vista delle elezioni regionali e comunali del 20 settembre, e sulla scelta del nuovo capo che il Movimento 5 Stelle dovrà compiere quando avrà finito di rinviare i suoi cosiddetti Stati Generali.
“Non si può mettere il carro davanti ai buoi”, ha detto Di Maio delle alleanze locali col Pd, pur volute da Beppe Grillo in persona un po’ per evitare i soliti bagni elettorali solitari dei suoi adepti e un po’ nella speranza di aiutare il Pd a conservare le regioni contese dal centrodestra, o addirittura a strappargliene qualcuna, come la Liguria.
Sulla possibilità, infine, che confusioni, lotte interne e quant’altro nel Movimento 5 Stelle siano superabili con una leadership riconosciuta direttamente a Conte la risposta di Di Maio è stata uguale alla sfida recente del suo amico, concorrente e avversario, secondo le circostanze, Alessandro Di Battista. Se davvero ha una simile ambizione o disponibilità, Conte cominci a scendere dall’albero del pero su cui è salito e si iscriva al movimento grillino, visto che già gli deve l’arrivo a Palazzo Chigi nel 2018 e la conferma l’anno dopo, a maggioranza pur letteralmente rovesciata.