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Biden Politica Estera

Biden trumpeggia in politica estera?

Pubblichiamo un estratto del saggio "Biden in crisi - Le difficoltà dell’Amministrazione Usa e le conseguenze interne e internazionali" a cura di Stefano Graziosi per il centro studi politici e strategici Machiavelli

 

Nel corso della campagna elettorale, Biden aveva a più riprese criticato la politica estera realista di Trump.

In particolare, l’allora candidato democratico gli rimproverava un rapporto troppo stretto con alcuni leader internazionali autoritari: fu quindi in tal senso che promise una politica estera basata sul rispetto dei diritti umani e sull’alleanza delle democrazie per arginare i regimi illiberali. Una prospettiva sostanzialmente legata all’internazionalismo liberal. Effettivamente, durante i primissimi mesi di presidenza, Biden sembrò tenere fede a questa promessa. Raffreddò significativamente i rapporti con l’Arabia Saudita e mise sotto pressione la Russia, impostando inoltre il confronto con la Cina prevalentemente sulla questione dei diritti umani. Tutto ciò, garantendo un rilancio delle relazioni transatlantiche dopo le turbolenze degli anni di Trump.

La situazione è tuttavia mutata con il ritiro dall’Afghanistan, che ha rappresentato un eclatante punto di svolta nella politica estera dell’amministrazione Biden. Emblematico è stato, sotto tale aspetto, il discorso tenuto dal segretario di Stato americano, Tony Blinken, lo scorso 30 agosto. Commentando il ritiro appena ultimato, dichiarò: «Permettetemi di parlare direttamente del nostro impegno con i talebani su queste e altre questioni. Nelle ultime settimane ci siamo impegnati con i talebani per consentire le nostre operazioni di evacuazione. Andando avanti, qualsiasi impegno con un governo guidato dai talebani a Kabul sarà dettato da una sola cosa: i nostri interessi nazionali vitali». Il cambio di rotta non potrebbe essere più netto.

Da una prospettiva di internazionalismo liberal (improntata alla difesa dei diritti umani e all’alleanza tra le democrazie) si è passati ad una visione fortemente realista, non così distante da quella che fu la linea di Trump: una visione, cioè, che non esclude aprioristicamente di trattare anche con regimi che non condividono valori e standard democratici. Va detto che, almeno in parte, questa svolta era probabilmente una scelta obbligata. L’internazionalismo liberal esige infatti costi enormi sia dal punto di vista umano sia da quello economico: un costo che, ormai da tempo, larga parte dell’elettorato americano non è più disposto a sobbarcarsi.

Ricordiamo del resto che la maggioranza dei cittadini statunitensi era favorevole al ritiro dall’Afghanistan: Biden è difatti finito sotto attacco politicamente non tanto per aver dato seguito all’Accordo di Doha (siglato da Trump nel febbraio del 2020), quanto semmai per la disastrosa operazione con cui è stata condotta l’evacuazione. Un’operazione che ha evidenziato dei significativi problemi di coordinamento in seno all’attuale Amministrazione americana. Il problema per Biden è tuttavia duplice. In politica interna, questo cambio di rotta ha creato malumori in quei settori del Partito Democratico che auspicavano un ritorno all’internazionalismo liberal: una figura fortemente rappresentativa di questi ambienti è senza dubbio l’attuale presidente della Commissione Relazioni Estere del Senato, Bob Menendez.

In politica estera, questa netta inversione ha determinato dei notevoli scossoni nelle relazioni transatlantiche: soprattutto dopo che, lo scorso agosto, Biden respinse la richiesta degli alleati europei di prorogare la deadline del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Un fattore, quest’ultimo, che ha messo in crisi il clima collaborativo del G7 di Cornovaglia, improntato al principio del «America is back». Un fattore che deve quindi essere accuratamente tenuto presente dall’Unione Europea e, in particolare, dall’Italia. Cerchiamo di vedere perché.

Va senz’altro riconosciuto che uno degli aspetti probabilmente più efficaci della politica estera di Biden risieda nel suo confronto con Pechino: materia, questa, in cui non si registra tra l’altro per ora troppa discontinuità rispetto al predecessore. A giugno scorso, l’attuale Presidente ha infatti siglato un ordine esecutivo, estendendo una blacklist di aziende cinesi – considerate pericolose nei settori della Difesa e della sorveglianza tecnologica – che lo stesso Trump aveva stilato tempo prima.

A settembre, Biden ha inoltre annunciato la nascita dell’Aukus: un nuovo patto di sicurezza tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia che punta a contrastare l’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. Un Indo-Pacifico su cui il Presidente americano ha deciso di puntare tutte le sue carte dopo il ritiro afghano. Ora, l’attenzione della Casa Bianca per quest’area risulta più che comprensibile e, del resto, si tratta dello sbocco naturale di un lungo processo che è partito da Obama, proseguito con Trump e arrivato oggi a Biden. Il problema tuttavia risiede nel simultaneo irrigidimento delle relazioni transatlantiche.

In altre parole, contenere la Cina nell’Indo-Pacifico e al contempo raffreddare i rapporti con l’Europa rischia di rendere il Vecchio Continente sempre più vulnerabile alla penetrazione politica ed economica di Pechino (anche perché non va trascurato il fatto che Berlino e Parigi intrattengono già stretti legami commerciali con la Repubblica Popolare). È quindi impellente che il deterioramento delle relazioni transatlantiche venga raffrenato: un’esigenza che proprio l’Italia potrebbe incaricarsi di far presente all’attuale Presidente americano. Contrastare la penetrazione cinese in Europa è infatti non soltanto negli interessi di Roma, ma anche di Washington.

 

IL DOSSIER INTEGRALE BIDEN IN CRISI

 

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