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Serbia

Đole, l’instancabile rom serbo racconta la sua vita (e i suoi tre lavori)

Musicista, tassista e speaker radiofonico, Đole vive in Serbia con la moglie e i loro due figli

Questa è una piccola storia di una famiglia qualunque: un padre ostinato lavoratore, una madre protettiva, un figlio pigro e materialista, un altro studioso e ambizioso. Una famiglia come tante. Una famiglia di rom di una grande città della Serbia: ma che importa che siano rom?

Đole è un mio amico. Dovreste vedere (oltre che sentire) come suona la fisarmonica: è un autentico virtuoso dello strumento. Però un giorno eravamo in gruppo davanti alla brace che arrostiva salsicce e Đole sparì dalla circolazione. Ricomparve dopo un’ora con in mano l’astuccio di un violino. Lo apre. “Ci sta per coglionare”, dice un amico comune. E invece no. Altro che coglionamento, Đole prende l’archetto e comincia a suonare la czardas di Monti. Bene. Siamo ammutoliti e alla fine ci scambiamo baci sulla guancia, alla serba: tre a testa.

Đole è prima di tutto un musicista. Gira per matrimoni e resta a suonare anche fino alle tre di notte, fintanto che l’ultimo ostinato non si è alzato da tavola e se ne è andato, di solito barcollando. Dice di svegliarsi molto presto al mattino, di certo è che alle otto già sento la sua voce alla radio. E sì, perché oltre che musicista Đole è anche comproprietario di una radio privata. La sua voce sparisce dalla radio prima di mezzogiorno. Io so che cosa sta per fare: è andato a casa, ha preso la sua Toyota Celica un po’ anzianotta, ha messo il cartello “taxi” sul tettuccio e ha cominciato il suo terzo lavoro.

Con gli anni Đole si è abbastanza impinguito, ma pur avendo solo tre anni e tre giorni meno di me, ne dimostra almeno dieci anni di meno. Specialmente quando va per matrimoni, con la cravatta nera che sfinisce il suo fisico un po’ allargato e gli occhiali scuri che nascondono le occhiaie e le borse sotto gli occhi.

Ha una bella moglie Đole, di aspetto decisamente più giovane di quanto l’età all’anagrafe dovrebbe mostrare. Lavora in una organizzazione non governativa (del terzo settore si direbbe in Italia). È piccola e minuta, con occhi neri. La loro casa è un prodigio di ordine e pulizia. La tengono in piedi bene, lei innanzi tutto, ma anche Đole, che quando è a casa non manchi di trovarlo con la spugna in mano a lavare piatti e tegami. Credo che faccia di più, perché una volta a casa sua l’ho beccato con la mano destra sul manico di una scopa e la sinistra che impugnava un panno antistatico per togliere la polvere (“Che ridi? Lo sai che non possiamo permetterci una donna di servizio!”).

Hanno due ragazzoni. Il più piccolo è adolescente, passa molto tempo su Internet e poco a studiare. “È irrecuperabile”, dice Đole, “prima si è iscritto a una scuola per diventare macellaio, poi a una per diventare parrucchiere, e ora alla scuola agraria. E io pago”. Il più grande è davvero enorme, un volume pari a quello del padre e della madre messi assieme. Ingannato dalla sua mole, Đole si era messo in testa che per questo figlio il futuro più promettente fosse quello di sportivo. Lo mandava al campo di calcio, l’ha mandato in uno degli innumerevoli campi da tennis che vanno di moda in questo Paese. E invece nessun risultato apprezzabile. Come il padre, è invece attratto dalla musica. Mai studiata, ma davanti a una fisarmonica non resiste. È il contrario del fratello: legge e studia in modo accanito, mentre la madre gli ripete che se continua così dovrà comprarsi gli occhiali.

Quando mi vede si attacca a me e non mi molla, vuole parlare di politica e di economia, e mai in serbo. Mi sembra versato in tutto, uno studente modello con molte idee originali in testa. E’ all’ultimo anno del ginnasio (equivalente a una nostra quarta superiore) e vuole andare all’università. Quanto alla facoltà dove iscriversi, non ha idee chiare: “Per me vanno bene tutte, l’importante è continuare a studiare”. “A ragazze come andiamo?”, gli faccio ogni volta che ci vediamo, assestandogli una forte e paterna pacca sulle spalle. “Non ho tempo per quelle cose”, mi risponde sempre. “Prima l’università, e poi, se capita …; in questa casa alle ragazze s’interessa mio fratello, e pure mio padre, ma quest’ultima cosa non la dire a nessuno, tanto meno a mia madre”.

Đole e famiglia sono un prodigio di normalità, se poi di normalità si può parlare a proposito di uno che suona fino a notte fonda, passa ore al microfono di una radio e altre ancora alla guida di un’automobile, senza contare la sua collaborazione al mantenimento dell’ordine e della pulizia in casa. Đole e famiglia sono rom, ma penso che se ne ricordino solo qualche volta. Forse soprattutto Đole, almeno nelle vesti di musicista e in quelle di comproprietario di una stazione radio che si rivolge soprattutto a un pubblico rom. In casa parlano serbo, intervallato da qualche frase in romanì e anche da qualche parola in ungherese. Il ragazzone grande a me si rivolge prevalentemente in inglese, ma quando capita di parlare di cibo o di automobili o di vestiti fa sfoggio di qualche parola di italiano (pronunciato benissimo, è uno dei pochi che sappiano distinguere le consonanti doppie).

Il piccolo con me si limita a una comunicazione primitiva: giusto due tre parole del genere “buongiorno, buon appetito, arrivederci”. Se il grande ha per me simpatia, lui ha per me una autentica, seppur malcelata, avversione. Penso che mi detesti, come un po’ tutti gli adolescenti detestano gli intrusi nel nido familiare, anzi nel nido personale che nel suo caso è la sua stanza da letto, unica isola di disordine in tutta la casa. “Tuo figlio – e sottolinea con la voce ‘tuo’ – farà una brutta fine”, dice e ripete Đole alla moglie e poi a me: “Ho ragione? Ma tua figlia si comporta così?”. Inutile spiegare a Đole la differenza fra un adolescente e una giovane madre. Meglio abbozzare, mentre invece alle parole del marito la moglie reagisce come una chioccia cui abbiano rubato un pulcino.

L’altro giorno il ragazzone grande mi ha svelato il suo piano. Vuole andare all’università, mi conferma che non sa a quale facoltà iscriversi, ma vuole andare alla Central European University a Vienna. Un lusso, ma ci sono le borse di studio e sono sicuro che vi studierà con successo. Se ci riuscirà, dimostrerà come l’élite gitana possa non essere fatta solo di musicisti, ma anche di professori universitari e magari di giuristi, politici e diplomatici.

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