skip to Main Content

Caso Barrack

Dazi Usa, le mire di Trump e le contromosse della Cina sul debito americano. Il punto sulla guerra commerciale

All'offensiva del presidente americano Donald Trump contro la Cina, Pechino come reagirà? L'articolo di Michelangelo Colombo

Guerra o guerricciola?

Annunci, minacce, oppure dazi reali?

E all’offensiva del presidente americano Donald Trump contro la Cina, Pechino come reagirà?

Sui mercati c’è chi scruta i primi segnali sui mercati di titoli di Stato.

Infatti, al di là dei contro-dazi attesi, il vero incubo per gli Stati Uniti è sempre lo stesso: la questione del debito Usa che il gigante asiatico potrebbe decidere di mettere sul tavolo per “avvertire”.

Ci sono stati segnali chiari in tal senso in questi giorni, con le due ultime aste dei titoli del Tesoro Usa disertate dalla Cina, notoriamente il principale acquirente. Quella del 7 maggio (il giorno dopo l’annuncio di nuovi dazi da parte di Trump) quando il Tesoro ha chiuso con un fiasco il collocamento di 38 miliardi di titoli a 3 anni, e quella dell’8 maggio su 27 miliardi di dollari di bond decennali.

E in effetti, in poco più di 48 ore, il presidente americano ha sostituito la minaccia di nuovi dazi con l’apertura a un possibile accordo con Pechino entro la prossima settimana, cogliendo di sorpresa sia la diplomazia internazionale che l’intera comunità finanziaria americana e mondiale.

“Secondo gli operatori, entrambe le aste hanno segnato la peggiore perfomance dei T-bond americani degli ultimi anni – ha scritto Il Sole 24 Ore – il decennale è stato collocato con un rendimento del 2,479% rispetto al previsto 2,46%, segnando il più elevato balzo in punti base dall’agosto 2016, mentre il bond triennale ha registrato non solo il peggior rapporto Bid-to-cover (2,17 rispetto al 2,55 precedente), ma soprattutto un crollo verticale degli acquisti sul mercato indiretto, dove il Governo cinese è da sempre il più grande acquirente di bond sovrani americani”.

Dal mercato, in entrambe le aste, era sparita non solo la Cina, ma tutte le autorità finanziarie dei paesi su cui la Cina esercita tradizionalmente un dominio politico, ha aggiunto il Sole: “Basti pensare che i dealer sono stati costretti a detenere il 35,2% delle emissioni, quasi il doppio del 19,6% delle aste di aprile, e il più alto dall’aprile 2018”.

Comunque Trump era stato chiaro: “Le trattative proseguono in maniera molto cordiale, il dialogo è stato franco e costruttivo e un’intesa è ancora possibile. Ma la Cina non può pensare di negoziare un accordo con gli Usa all’ultimo minuto. Questa non è l’amministrazione Obama o l’amministrazione di Sleeping Joe”, ha scritto su Twitter, riferendosi a Joe Biden, l’avversario più accreditato per la sfida della Casa Bianca nel 2020.

Per Trump, dunque, “non c’è fretta”. Questo il messaggio che i suoi hanno consegnato nelle mani del vicepremier di Pechino Liu He. Non solo. A Xi la Casa Bianca ha inviato anche un nuovo monito che di fatto suona come un ultimatum: o si fa l’accordo in tre, quattro settimane o scatteranno dazi del 25% sui restanti 350 miliardi di dollari di prodotti che la Cina esporta in Usa. Uno scenario da incubo, con le barriere commerciali che in pratica colpirebbero il totale dell’export di Pechino negli Stati Uniti, valutato lo scorso anno in circa 540 miliardi di dollari.

“I dazi rendono l’America più forte, non più debole”, assicura il presidente americano, respingendo le previsioni di quegli esperti che alla Casa Bianca vengono considerati dei ‘gufi’. Quelli che nello scenario peggiore, lo scontro totale con la Cina, prevedono una recessione dell’economia americana entro la fine del 2020, proprio quando si andrà a votare per le elezioni presidenziali. Intanto Pechino si appresta a pagare cara la retromarcia fatta venerdì scorso sulla bozza di accordo messa a punto in mesi di lavoro, un accordo che sembrava ormai fatto.

L’aumento dei dazi Usa scattato alla mezzanotte tra giovedì e venerdì rischia di rallentare ulteriormente la crescita economica del Dragone e di pesare sul suo pil intorno allo 0,3%. Le misure varate dagli Usa colpiscono 5.700 prodotti ‘made in China’, dai seggioloni per bambini alle lucette degli alberi di Natale, ma anche dispositivi elettronici, schede per computer, mobili, piastrelle, componenti per auto, generi alimentari. Si attende ora la risposta che le autorità cinesi hanno definito “inevitabile”: “Siamo costretti”, dicono da Pechino, ma Trump appare tranquillo. Meno lo sono in tanti nella sua amministrazione.

Il dossier debito e aste dei t-Bond è infatti in cima ai pensieri dei tecnici della Casa Bianca.

Back To Top