Dal “Giardino delle rose” della Casa Bianca arrivano le prime spine per l’Europa e per l’Italia. Con una cerimonia in mondovisione, ma a mercati chiusi, Donald Trump ha proclamato il 2 aprile “giorno della liberazione”, svelando e firmando il piano delle “tariffe reciproche” che intende applicare non solo ai prodotti europei con effetto immediato.
Un nuovo “D-Day” – d come dazio, stavolta -, destinato a colpire il resto del mondo. Ma che ha come paradossale bersaglio il principale alleato occidentale: l’Unione dei 27 Paesi.
Toccherà agli esperti valutare a freddo settore per settore (25% si profila per l’auto) e voce per voce quale sarà l’aumento in concreto.
Ma l’annunciato approccio della reciprocità e l’intenzione dichiarata che lui si accontenterà di alzare i dazi della metà di quanto avrebbe dovuto, lascerebbero intendere che Trump intenda negoziare e non solo sfidare quanti avrebbero “saccheggiato” il suo Paese e “rubato il sogno americano”. Anche se per l’Ue, “che ci ha derubato per anni”, si prevederebbe un 20%.
Bruxelles ha già fatto sapere che risponderà in due fasi. A metà aprile ai dazi sull’acciaio e alluminio. Entro la fine del mese a tutti gli altri settori nel frattempo passati al setaccio.
La scure fiscale di Trump si abbate su un continente del quale gli esperti prevedono una crescita modesta, non oltre l’1% per quest’anno. Una prospettiva deleteria anche per il nostro Paese, perché andrebbe a ledere il lieve rilancio previsto, che è già al di sotto della media europea. Secondo i calcoli di Confindustria il possibile calo del Pil potrebbe essere di quasi mezzo punto percentuale.
Non per caso alla vigilia dell’annuncio sui dazi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è tornato a definire “un errore profondo” l’imposizione delle nuove tariffe, sollecitando una risposta “compatta, serena e determinata” da parte della colpita Unione europea. E la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pur volendo “scongiurare in tutti i modi possibili” una guerra commerciale tra Washington e Bruxelles “perché -sottolinea- non avvantaggerebbe nessuno”, di fronte al temuto danno per il “made in Italy” paventato sia dagli imprenditori, sia dagli economisti, non esclude “risposte adeguate” per difendere le aziende che producono ed esportano negli Stati Uniti.