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Covid-19 come la Seconda guerra mondiale?

L’intervento di Paolo Rubino Non si contano, al tempo del coronavirus, i richiami agli scenari bellici. E la figura di Churchill è ricorsa infinite volte nel pubblico dibattito. Data la potenza evocativa di questo paragone, vale la pena approfondire l’argomento nel tentativo di cercare ispirazione e guida all’azione politica. In questa narrazione i protagonisti sono…

Non si contano, al tempo del coronavirus, i richiami agli scenari bellici. E la figura di Churchill è ricorsa infinite volte nel pubblico dibattito. Data la potenza evocativa di questo paragone, vale la pena approfondire l’argomento nel tentativo di cercare ispirazione e guida all’azione politica. In questa narrazione i protagonisti sono il primo ministro Churchill, eponimo del governante condottiero, risoluto e implacabile.

L’esercito nazista, il virus ideologico che attanaglia l’Europa. Il British Expedition Force, BEF, che, insieme alla Grande Armée francese, rappresenta il popolo europeo aggredito dal virus nazista. La scena in cui si svolge la vicenda è la costa nord della Francia nella cittadina di Dunquerque; l’epoca, la tarda primavera del 1940. Da tempo oramai i governanti anglo francesi hanno assistito alla propagazione del virus nazista nelle terre europee. L’Austria e la Cecoslovacchia sono i primi focolai territoriali in cui si diffonde la malattia, ma i governanti sono incerti e sottovalutano l’avversario. Ritengono che quel virus possa arrestarsi in quei territori, tutto sommato marginali e periferici e che non valga la pena affannarsi.

Ma poi il virus aggredisce violentemente anche la Polonia e, finalmente, i governanti realizzano che bisogna fare qualcosa. Dichiarando di voler sconfiggere il nemico, in realtà adottano un mero provvedimento di “chiusura delle frontiere” attestando i propri eserciti sull’obsoleta linea Maginot in attesa che quel virus arrivi e si infranga. Ma il virus muta e, prese le sembianze del generale Guderian, tradisce la fede dei governanti e penetra da una diversa via, la foresta delle Ardenne, nel sacro territorio francese. In breve, esso si è diffuso in Norvegia, Olanda e Belgio e Danimarca. Con le sembianze dell’indisciplinato Guderian arriva sulla costa francese della Manica dove sono asserragliati in una trappola senz’altra via di fuga che il mare oltre un milione di uomini, il fior fiore degli eserciti britannico, francese e belga.

A metà maggio del 1940 il governante Churchill affronta il tragico dilemma: resistere a oltranza nella sacca di Dunquerque, inviando via mare forze fresche e rifornimenti per difendere l’umanità europea dal virus nazista o ritirare quelle forze via mare asserragliandosi nell’isola britannica? Quest’episodio della storia europea è stato esaminato da tutte le possibili prospettive e infinite sono le interpretazioni sul pensiero e gli intenti di Churchill in quel drammatico momento. Sono passati oramai otto decenni da allora e l’arma degli storiografi, il senno del poi, può aiutarci a descrivere i fatti. Churchill sceglie di ritirare l’esercito dal territorio francese e molti ritengono che quella scelta avesse lo scopo di salvaguardare le forze per continuare la guerra al virus da una linea difensiva arretrata, le isole britanniche, mai più invase dopo lo sbarco di Guglielmo il conquistatore nel 1066, oramai ben nove secoli prima. In effetti, il condottiero inglese non manca, egli stesso, di dichiarare tale intento in un drammatico pubblico discorso ai suoi contemporanei. Egli da il via, infatti, alla cosiddetta operazione Dynamo, un epico ponte navale sulla Manica per ritirare le truppe.

Ma cos’ha in mente Churchill quando da il via all’operazione Dynamo? Il suo scopo, dichiarato nei piani, è di riportare sul suolo britannico non più di 40.000 soldati, un irrisorio 4% delle forze asserragliate nella sacca di Dunquerque dando per scontato l’abbandono di armi, mezzi e rifornimenti impossibili da salvare nella ritirata. Come in effetti accadde. È davvero possibile che l’indomito governante britannico pensasse che il salvataggio di soli 40.000 uomini, privi di armamenti e risorse, annichiliti nel morale dall’abbandono di altri 960.000 commilitoni nelle mani del virus, fosse l’imprescindibile asset strategico per continuare la guerra? In realtà, la ritirata di Dunquerque fu certamente un successo, visto che gli effettivi salvati furono alla fine ben 338.000 soldati.

Ma questo successo fu frutto soltanto del caso, ovvero dell’imprevedibile freno autolesionista posto dal virus nazista al suo stesso gene mutante Guderian. L’ottusità del quartier generale dell’esercito germanico; l’inettitudine, unita all’arroganza, del comandante in capo della Luftwaffe, il gerarca Göring; il calcolo politico errato di Hitler che, nel risparmiare i soldati britannici, contava di generare empatia con l’avversario nello scenario di un auspicato armistizio a breve termine. Queste furono le ragioni per cui l’operazione Dynamo riuscì a salvare ben nove volte più uomini di quanti se ne fosse proposti ad obiettivo. E tutto questo non poteva essere ragionevolmente nell’intento di Churchill quando prese la sua drammatica decisione. Ebbe fortuna e questa, come è noto, aiuta gli audaci.

Ma nessun audace può pianificare la fortuna, perché questa è cieca. La seconda guerra mondiale è piena di svolte dove audaci piani sono stati frustrati dal caso avverso o ingigantiti da quello favorevole. Certamente Guderian, nell’immaginare la penetrazione attraverso le Ardenne non aveva messo in conto – all’epoca era impossibile – le favorevolissime condizioni climatiche della primavera 1940 che ne esaltarono il successo e d’altra parte Hitler, il vero capo operativo del piano Barbarossa, nella successiva primavera 1941, non aveva messo in conto le avverse condizioni climatiche che, invece, frustrarono l’audace progetto di conquista dell’Unione Sovietica. E lo sapeva bene Yamamoto che, favorito dalla sorte, riuscì nel colpo di Pearl Harbour, ma, per sorte avversa, non trovò le portaerei americane, bensì solo le inutili obsolete corazzate. Quando ci riprovò, sei mesi dopo alle Midway, la sorte favorì l’audace piano del suo avversario Nimitz e la flotta giapponese di portaerei fu annichilita al posto di quella americana. E l’audace Rommel era ben consapevole che le chance di vittoria in Nord Africa erano legate alla tempestività della penetrazione in Egitto.

Il tempo lungo avrebbe favorito i britannici il cui capitale fresco da versare nella voragine bellica era soverchiante rispetto a quello risicato degli italotedeschi. Eppure, il crollo psicofisico e la conseguente depressione in cui piombò la volpe del deserto dopo l’insuccesso della seconda battaglia di El Alamein erano imprevedibili per chiunque. Per chi è al comando, la sorte è imprevedibile nel bene e nel male. Ma chi è al comando si comporta da irresponsabile se non progetta un piano e si affida solo alla sorte. Il piano di Churchill al momento della drammatica decisione di Dunquerque non era di salvare 40.000 soldati, ma di guadagnare tempo in attesa che il grande capitale di riserva al di là dell’Atlantico, gli Stati Uniti, aprisse il cordone della borsa e riversasse nell’agone bellico le sue immense risorse. Durante la sanguinosa battaglia d’Inghilterra tra RAF e Luftwaffe, così come durante lo scontro, di breve durata per la verità, tra la flotta italiana e quella britannica nel Mediterraneo, oppure l’estenuante confronto nordafricano dove bruciò non meno di 10 generali di alto rango dell’esercito di sua maestà nel tentativo di contrastare l’ardito Rommel, Churchill aveva un unico mantra strategico in testa: convincere gli USA ad entrare in guerra. E quando alla fine vi riuscì, i numerosi colpi di fortuna che pure la sorte gli aveva donato, servirono ad esaltare il suo successo. La lezione per i governanti nell’era del coronavirus è banalmente questa: bene la battaglia per le mascherine e i ventilatori. Ugualmente bene la disciplina del lock down. Bene anche l’helicopter money. Ma senza una strategia competitiva della rinascita, tutto questo sarà inutile. La preghiera ai nostri governati è di dedicarcisi con acume e perseveranza.

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