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Cosa succede nelle carceri non solo italiane?

Considerazioni a margine sul tunisino in carcere a Reggio Emilia, oltre i casi Cospito, Salis e non solo. Il commento di Cazzola

 

Leo Longanesi fu una singolare figura di intellettuale, buon giornalista ed innovatore nel mondo editoriale. Fascista, sia pure con qualche ambiguità (fu l’inventore dell’affermazione “Mussolini ha sempre ragione”), quando l’Italia entrò in guerra il 10 giugno del 1940 accettò di collaborare alla propaganda del regime fascista e produsse una serie di slogan che sono passati alla storia, come: «Taci! Il nemico ti ascolta», «La patria si serve anche facendo la sentinella ad un bidone di benzina». Ma quello più ficcante venne a ridosso del vile attacco militare alla Francia aggredita da Hitler e sul punto di soccombere; lo slogan chiamava in causa Biserta definita, «Una pistola puntata contro l’Italia».

La Tunisia allora era una colonia francese e la propaganda richiedeva di inventarsi dei pericoli per l’Italia che ne giustificassero l’inizio delle ostilità. Oggi da Biserta e dalla Tunisia sono puntate verso l’Italia solo le antenne paraboliche per riprendere le trasmissioni tv.

Immaginiamo allora che venerdì sera le famiglie tunisine sedute davanti ai teleschermi in attesa del Festival di Sanremo, abbiano assistito alla proiezione di un video ANSA in cui erano riportate le violenze che una decida di agenti penitenziari del Carcere di Reggio Emilia impartivano ad un tunisino detenuto in attesa di giudizio. Il malcapitato incappucciato con la federa di un cuscino veniva sbattuto a terra, percosso e preso a calci, poi spogliato e costretto nudo e sanguinante in una cella d’isolamento. Da quello che si è capito parrebbe che quel trattamento gli fosse riservato perché si era lamentato durante un colloquio con la direttrice del carcere.

Alla vista di quello spettacolo “disumano” (è questo l’aggettivo che si usa per Ilaria Salis), che sarà stato certamente rilanciato dalle reti tunisine, è presumibile che siano iniziate le proteste. Magari sulla tv di Stato “Mu’asasat altalfazat altuwnsiat”, nota anche come Télévision Tunisienne (perché trasmette in arabo e in francese) va in onda un programma in prima serata che si intitola “8 lune e ½” ed è condotto da un’anchorwoman di successo – di nome Lilli Al Gruber – la quale, appena appresa la notizia, si è subito ricordata dei rapporti amichevoli intercorrenti tra il presidente Kaïs Saïed e la premier Giorgia Meloni (insieme formano una sorta di articolo “il”) e ha lanciato la proposta di un suo intervento diretto, lasciando intendere che quanto era accaduto al cittadino tunisino in fondo era anche colpa sua e del suo governo che non si era interessato al caso nonostante che fosse accaduto tanti mesi prima, senza che nessuno provvedesse peraltro a dotare la vittima di abiti non insanguinati e puliti (questo è un aspetto da chiarire nel caso Salis: era tenuta l’amministrazione carceraria di Orbàn a fornire vestiti puliti o avrebbe dovuto pensarci la famiglia?).

Non risulta che il detenuto tunisino volesse incontrare un avvocato del suo Paese e che gli sia stato negato; tuttavia aveva a disposizione un legale italiano (come Salis un avvocato ungherese) che ha fatto la sua parte denunciando l’episodio di violenza, tanto che gli agenti felloni andranno sotto processo per rispondere di pesanti imputazioni.

Nei prossimi giorni esponenti politici tunisini di opposizione criticheranno il ministro degli Esteri e l’ambasciatore tunisino in Italia, come hanno fatto, da noi, i parlamentari dell’opposizione a commento del caso Salis, prendendosela con Antonio Tajani e con il nostro ambasciatore a Budapest, almeno, per quest’ultimo, fino a quando non si è scoperto che era stato il consigliere diplomatico del ministro Speranza.

Comunque la nostra superiore civiltà giuridica è emersa anche in questa circostanza. Le nostre guardie carcerarie quando scortano un imputato per reati di violenza, gli tolgono le manette prima di infilarlo nella gabbia dove rimane rinchiuso durante tutta l’udienza. Poi la condizione delle carceri è tanto dignitosa che nel 2023 ci sono stati 156 tentativi di suicidio, di cui 68 andati a buon fine. Nell’anno in corso siamo già a quota 15 defunti.

Così, se per il tunisino di Reggio Emilia sarà fatta, come ci auguriamo, giustizia, per tanti altri ha pesato un clima di violenza ed una condizione di disagio in cui versano i nostri istituti carcerari.

Per avere un quadro della situazione basta leggere i verbali pubblici delle ispezioni effettuate dai garanti delle persone private della libertà. Sembra però difficile che la vittima di questo pestaggio possa essere autorizzato a scontare gli arresti domiciliari nell’ambasciata del suo Paese, tanto più che nessuno ne fa richiesta.

Per la cronaca, pare che ci siano più di 2.000 italiani ospiti delle carceri di tutto il mondo. Tutti i cittadini/e sono uguali; ma si vede che qualcuno/a è più uguale degli altri. Ricordate Alfredo Cospito? Si è parlato per settimane del suo sciopero della fame invocando non solo clemenza, ma adesione alle sue richieste; ha ricevuto visite in carcere di composite delegazioni politiche; è riuscito persino a far criticare la magistratura (da parte di chi la mette sugli altari) perché si ostinava a confermare il regime del carcere duro nonostante che l’anarchico non fosse riuscito nell’intento di ammazzare qualcuno con i suoi esplosivi. Poi il problema lo ha risolto lo stesso Cospito riprendendo a mangiare.

Quello di Ilaria Salis è diventato un caso politico solo perché è avvenuto in Ungheria e in Italia c’è questo governo. Poi – diciamoci la verità – una trasfertista dell’antifascismo che si è recata in Ungheria per contestare (mi pare che questa condotta non lo metta in discussione nessuno; quanto alla violenza andrà accertata) dei (presunti?) neonazisti agisce in nome di alti valori morali che andrebbero imitati perché – come si diceva un tempo – “uccidere un fascista non è reato”?.

Chi ha la mia età ricorda il caso di Silvia Baraldini, condannata negli Usa a molti anni di carcere per “associazione sovversiva”. In Italia alla fine del secolo scorso fu organizzata una grande campagna dei soliti settori di sinistra (si distinse in particolare il Partito comunista d’Italia che si era scisso da Rifondazione comunista) per riportarla a scontare la pena in Italia. L’operazione riuscì. La detenuta venne accolta in Italia come un’eroina, ma quando venne ospitata nelle carceri italiane (in seguito usufruì di un indulto) venne fatto notare che nella prigione americana disponeva di una cella singola, di un computer e della possibilità di frequentare una palestra, mentre in Italia dovette accontentarsi di ciò che passava il convento.

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