Non sempre il patto che dovrebbe saldare la famiglia e la scuola per la migliore tutela dei nostri ragazzi funziona. Non ci sono colpe ma qualche responsabilità sì. A cominciare dalla diffidenza inoculata nei figli nei confronti dei loro insegnanti, da parte di alcuni genitori patologicamente possessivi. L’aprioristica “difesa d’ufficio” non dà mai buoni risultati, siamo passati da un eccesso all’altro.
Un tempo se i genitori venivano a conoscenza di un rimprovero, di un brutto voto preso a scuola erano soliti rincarare la dose: la prima cosa che si insegnava in casa era il rispetto per l’istituzione e l’autorità degli insegnanti. Adesso – di fronte a un richiamo, a una valutazione severa di un tema, di un elaborato, di un compito – ci sono padri e madri che partono in quarta con esposti in Procura. Si troverà mai un giusto punto di equilibrio? È una cosa necessaria, trattandosi di personalità in formazione.
Molto spesso alla scuola si attribuiscono pregiudizialmente “colpe” o “mancanze” proprio da parte di famiglie problematiche: l’esperienza di ascolto dei minori da parte dei Servizi Sociali o degli stessi Tribunali minorili dimostra che c’è più di un nesso, c’è una corrispondenza diretta e statisticamente accertata tra casi di inadempienza all’obbligo, di scadente profitto scolastico e situazione problematica e critica del contesto familiare.
Ciò accade nei più comuni casi di disagio, che a loro volta generano situazioni di vero e proprio “rischio educativo”. Figuriamoci quando si tratta di minori che fanno uso sistematico di droghe, navigano le rotte proibite della rete o – peggio – sono entrati in qualche modo in contatto con il mondo della prostituzione o comunque con l’uso strumentale e la mercificazione del proprio corpo.
Si tratta di situazioni che in genere lanciano “segnali”: di comportamento dissociato dal gruppo dei pari, di scarso profitto, di assenze ripetute e ingiustificate, di atteggiamenti di irriverenza o ribellione – ad esempio – o (come accaduto nel caso della “Roma bene”), di ostentazioni esteriori (abiti, trucco, cosmetici, posture, disponibilità di denaro, linguaggio disinibito o, viceversa, ingiustificati “mutismi”).
Spetta alla sensibilità dei docenti e dei dirigenti scolastici notare questi atteggiamenti e queste modificazioni nell’essere e nel porsi e rapportarsi con delicatezza alla famiglia, ai servizi sociali, alle stesse autorità minorili: sempre “cum grano salis”, con circospezione e con modalità scevre da frettolosi e superficiali pregiudizi.
Le evidenze per capire non mancano mai: a cominciare dai comportamenti realizzati negli stessi ambienti scolastici. Si pensi ai casi riferiti di ragazze adolescenti che si concedevano ai compagni nei bagni della scuola, dietro compenso o in cambio di una ricarica telefonica: le “ragazze doccia”.
E qui occorre rimarcare come e quanto la scuola debba esercitare tutta la sua “sacra” autorevolezza considerato che si tratta di soggetti minori in situazione di “affido educativo” verso i quali viene esercitato un compito professionale che parta dal buon esempio.
Ci si chiede cosa la scuola possa fare e come possa intervenire, in casi di sospetti su situazioni a rischio.
Dell’osservazione dei comportamenti e della conseguente segnalazione alle autorità preposte si è già detto.
Naturalmente impostando i preliminari approfondimenti in modo colloquiale, cercando di conoscere, capire attraverso il dialogo diretto con gli alunni stessi. Aggiungerei un paio di compiti precipui dell’istituzione scolastica. Il primo è quello di creare un ambiente che i ragazzi e le ragazze possano frequentare “volentieri”, naturalmente senza che ciò comporti un’abdicazione al ruolo alto e istituzionale della scuola.
L’autorevolezza dell’insegnante non si esprime attraverso un rapporto confidenziale con i propri allievi, non c’è spazio per pettegolezzi o argomenti fuori tema: la scuola è una cosa seria ma può non diventare “pesante”, proprio per non offrire pretesti di abbandono precoce.
Oltre all’insegnamento disciplinare, all’istruzione in senso stretto, al passaggio di nozioni e all’acquisizione di abilità e competenze strumentali o culturali, serve che la scuola sappia impostare una “buona educazione sentimentale”.
I ragazzi devono sentirsi accolti, capiti, aiutati: l’aula non è un patibolo e il consiglio di classe non è un plotone di esecuzione: lo sottolineo vista la posta in gioco di cui ci si capacita, tutti, quando emergono situazioni ben più gravi, altamente problematiche e “compromettenti” per il benessere dei ragazzi (che sono persone prima di essere alunni) come quelle di cui la cronaca spesso si occupa.
Si deve puntare a un clima disteso, di stima e fiducia reciproca, che non metta assolutamente in discussione l’autorevolezza del contesto formativo, il prestigio dell’istituzione, il rispetto dovuto alla figura dell’insegnante.
Un clima che possa essere percepito dai ragazzi e dalle ragazze e che non li induca a rivolgersi altrove, pescando nel torbido della rete senza controlli o peggio fidandosi di astuti marpioni che segnerebbero in modo drammatico il corso della loro vita.
Ho in mente l’efficace e pittoresca definizione del filosofo Luigi Lombardi Vallauri: quella di una “scuola come astronave di assorti”. Una definizione non retorica, che rimarca la necessità per gli adolescenti di sentirsi parte di un clima coeso e solidale, di un’unità d’intenti, di una forte motivazione ad apprendere in un’atmosfera riflessiva e creativa, di fiducia e di serenità.
Il secondo aspetto che vorrei evidenziare riguarda il più importante compito che viene affidato all’istituzione scolastica, oltre quello limitante e riduttivo della mera socializzazione e ancor più oltre quello “punitivo” della sola “formazione strumentale”: si studia per crescere e maturare, non solo per prendere dei voti.
Questo aspetto concerne la “costruzione di una mente critica e libera”: è tale lo scopo più alto e nobile di una buona educazione.
Ragionare con la propria testa, sviluppare le proprie potenzialità, forgiare un carattere, assecondare attitudini e viceversa emendarsi dagli errori, saper far tesoro delle cadute per migliorarsi, attribuire il giusto valore alle cose, nobilitarsi come persone crescendo e maturando nell’universo della cultura, attingendovi valori, “esempi”, principi che – oltre l’immediato – saranno utili e spendibili per tutta la vita.
Mettere – da parte degli insegnanti-adulti – gli studenti-minori di fronte all’evidenza delle cose, ragionare insieme sugli sbagli che si possono commettere, paventare rischi che non riguardano solo il curricolo scolastico ma la stessa dignità del loro essere “persone”.
Perché prima della mercificazione a buon mercato del proprio corpo, prima della sua negazione e dissoluzione c’è la “prostituzione” della mente e del cuore che reca con sé tutte le conseguenze pratiche della perdita di dignità, della disistima dell’io.
Non compete dunque alla scuola tanto il programmare corsi improvvisati o accelerati di “educazione sessuale”, che risulterebbero persino obsoleti di fronte alle più aggiornate conoscenze dei ragazzi e delle ragazze, quanto attrezzarsi per un “help” pedagogico e psicologico all’evidenza dei disagi percepiti nel comportamento degli alunni-adolescenti.