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Commercio Russia

Cosa farà la Russia in Afghanistan

L’equilibrismo della Russia di Putin nell’Afghanistan dei talebani. L’analisi di Anna Zafesova tratta da Affari Internazionali   Quando, il 15 febbraio 1989, il generale Boris Gromov aveva attraversato su un blindato il ponte dell’Amicizia, ultimo militare sovietico ad abbandonare l’Afghanistan, tutto il mondo l’aveva vissuta come una sorta di lieto fine, la giustizia che si compiva…

 

Quando, il 15 febbraio 1989, il generale Boris Gromov aveva attraversato su un blindato il ponte dell’Amicizia, ultimo militare sovietico ad abbandonare l’Afghanistan, tutto il mondo l’aveva vissuta come una sorta di lieto fine, la giustizia che si compiva dieci anni dopo un’invasione assurda quanto disastrosa, ultimo sussulto imperialista di un regime che stava vacillando sotto il peso della sua stessa inefficienza.

Inevitabile che, 32 anni dopo, qualsiasi avvicendamento drammatico a Kabul e dintorni viene visto a Mosca attraverso la lente di questo ricordo. Ritirarsi da un Paese che ha fama di “tomba degli imperi” è una sconfitta delle ambizioni globali, e il Cremlino – per il quale l’anti-americanismo è ormai da anni un perno sul quale ruota la visione “geopolitica” – non è riuscito a nascondere il suo compiacimento per la ritirata precipitosa degli Usa.

In quella visione della politica internazionale come di un gioco a somma zero, una sconfitta di Joe Biden è già una mezza vittoria di Vladimir Putin, o comunque mette i russi sullo stesso piano degli americani, rendendo meno umiliante la propri sconfitta, in una fase politica di revisionismo a 360 gradi del passato sovietico che sta riconsiderando come negativi anche eventi universalmente percepiti come positivi, come il ritiro dall’Afghanistan, gli accordi sul disarmo nucleare con Ronald Reagan o il fallimento del golpe degli “hardliner” comunisti di trent’anni fa.

DIALOGO AVVIATO

Al di là della retorica anti-americana, l’establishment russo sembra comunque aver superato quel trauma afghano che aveva messo per trent’anni il tabù su qualunque coinvolgimento nelle vicende di Kabul. Nel 2001, Putin – all’epoca alleato di George W. Bush nell’operazione contro i talebani e al Qaida – aveva concesso alla Nato il diritto di sorvolo del territorio russo e l’appoggio logistico delle sue basi militari, giustificando però il mancato coinvolgimento in prima persona dei militari di Mosca con ovvi motivi di un passato ancora troppo recente. Un ventennio dopo, responsabili del ministero della Difesa russo “non escludono” una partecipazione alle vicende afghane, e la diplomazia parla di un “ruolo attivo nella ricostruzione socio-economica”, si presume a fianco dei talebani.

Il dialogo con il nuovo governo afghano è già avviato; Mosca aveva aperto un negoziato con i talebani già nel 2018. Ufficialmente, il movimento talebano è stato inserito dalla Russia nella lista delle “organizzazioni terroristiche”, e ogni loro menzione nei media russi deve essere per legge accompagnata da un disclaimer che lo ricorda. Ma il capo della diplomazia Sergey Lavrov aveva dichiarato a luglio che i talebani sono “persone ragionevoli”, e il responsabile del secondo direttorato asiatico del ministero degli Esteri russo Zamir Kabulov, ex ambasciatore in Afghanistan, li ha definiti “più interessanti per negoziare rispetto al governo fantoccio dell’ex presidente Ghani”. Mosca è stata tra i pochi Paesi a non aver richiamato i propri diplomatici da Kabul, e l’attuale ambasciatore russo Dmitry Zhirnov ha lodato pubblicamente la scorta talebana intorno alla missione russa, arrivata a “proteggerci da terroristi e folli”.

Nonostante questi gesti pubblici di simpatia, il riconoscimento ufficiale del nuovo governo afghano per ora non è all’ordine del giorno, anche per via della forte pressione dell’opinione pubblica interna, fortemente negativa rispetto a un Paese visto come una roccaforte di fondamentalismo, dove sono morti più di 15 mila soldati sovietici. Gli oppositori stanno anche usando le simpatie pro-talebane per sottolineare come il Cremlino negozia con estremisti islamici mentre arresta e bandisce come “estremisti” politici liberali, anche lontani dall’orbita di Alexey Navalny. Inoltre, la Russia ha l’eterno problema del jihadismo al proprio interno, ed è probabile che una vittoria clamorosa come quella dei taleban potrebbe servire da modello anche per i fondamentalisti russi del Caucaso.

EQUILIBRI REGIONALI

Qualunque mossa di apertura verso i talebani preoccuperebbe però anche i partner storici della diplomazia russa: l’India, inquietata dall’arrivo di un regime sostenuto dal Pakistan (e dalla Cina), e i Paesi ex sovietici dell’Asia Centrale, che si trovano ora dei vicini difficili come i talebani. I regimi postcomunista dell’Asia centrale – tra cui l’Uzbekistan e il Turkmenistan, entrambi confinanti con l’Afghanistan – hanno a lungo goduto della tolleranza se non del sostegno (non solo di Mosca, ma anche di Washington) proprio nel loro ruolo di argine autoritario, ma laico, a un’ipotetica diffusione del fondamentalismo.

Mosca potrebbe giustificare le proprie aperture al nuovo regime di Kabul con una sorta di rassegnato pragmatismo: se non puoi impedire una cosa, è meglio cercare di metterla sotto controllo, e Lavrov assicura di aver ottenuto dai suoi interlocutori talebani garanzie di non ingerenza negli affari dei Paesi limitrofi, e del pugno duro contro l’Isis ( he peraltro lo stesso Putin sospetta di essere una creatura degli americani). Ma i rischi dell’insediamento dei taleban appaiono per il momento superiori agli (in buona parte immaginari) vantaggi per Mosca dalla ritirata americana dal Grande Gioco.

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