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Cosa cambia per l’Italia dopo gli incontri di Meloni con Trump e Vance. L’analisi di Varvelli (Ecfr)

Gli incontri di Meloni con Trump e Vance analizzati da Arturo Varvelli, politologo e capo dell'ufficio di Roma - oltre che Senior Policy Fellow - dell'European Council on Foreign Relations (Ecfr)

Il vicepresidente degli Usa JD Vance è a Roma. Solo poche ore prima Giorgia Meloni e Donald Trump hanno avuto un faccia a faccia a Washington, nello Studio Ovale. Abbiamo chiesto di analizzare le prospettive del ruolo diplomatico di Roma e i risultati dell’iniziativa della premier italiana ad Arturo Varvelli, politologo e capo dell’ufficio di Roma – oltre che Senior Policy Fellow – dell’European Council on Foreign Relations (ECFR).

Qual è il primo bilancio che si può fare dell’incontro tra Meloni e Trump?

Partiamo dalla premessa che non mi aspettavo che Meloni risolvesse la questione dei dazi tra l’Europa e gli Stati Uniti. Mi aspettavo esattamente quello che è successo, ossia che fosse un incontro conciliante. Meloni ci sa fare nelle relazioni pubbliche, sa toccare i tasti giusti e poi è percepita come ideologicamente affine alla destra americana, a Trump. Ciò ha facilitato il lavoro. Mi pare che poi lei abbia anche tenuto il punto fermo per esempio sull’Ucraina e su Zelensky. Ha ribadito pubblicamente che la responsabilità del conflitto non è di Zelensky. E poi ha portato a casa anche la questione che forse riteneva più importante e sostanziale: ossia la riunione tra Usa e Ue a margine del summit Nato di giugno.

Un vertice differente da quelli visti nello Studio Ovale recentemente.

È stato un incontro completamente diverso rispetto a quello con Zelensky, e anche, tutto sommato, rispetto a quello con Macron. Il presidente francese se la cavò alla grande perché fece in diretta il pelo e il contropelo a Trump, criticandolo su quello che diceva, ribattendo con numeri dati, una sorta di fact checking in diretta. Però questo non era necessario per Meloni, avevano in mente tutte e due che tipo di meeting volevano ed è stato indubbiamente ben preparato. Seppur ci fossero tensioni, visto per esempio i dazi, il messaggio che volevano entrambi dare era distensivo. Meloni da parte sua si è proposta come ponte tra le sponde dell’Atlantico. L’ha ribadito quando ha citato lo slogan Make West Great Again.

Un ruolo da pontiere, quindi, ma con vantaggi e svantaggi. Quali?

Meloni continua a sostenere questa retorica, che l’Occidente sia ancora unito, che l’Alleanza atlantica esisterà ancora, e così via. Dipinge un Trump puramente come transazionale, facendo finta che Trump non stia mettendo in dubbio l’alleanza, che Trump non costituisca una minaccia per l’Unione europea o che Trump in realtà non voglia così duramente colpire l’Europa. Questo serve a Meloni per continuare ad avere una logica politica. Ma da una parte è utile anche per gli interessi dell’Italia. Considerando la nostra debolezza (spendiamo poco in difesa, non siamo un paese che dispone del seggio alle Nazioni Unite, non abbiamo una forza nucleare come i francesi o gli inglesi), capisco le titubanze di Meloni ad abbandonare il vecchio alleato per sposare una spinta verso un’indipendenza europea. Secondo me sarebbero state delle cautele di qualsiasi governo italiano, ancora di più di un esecutivo come quello di Meloni che è nazionalista più che europeista. Si trova in mezzo e cerca di barcamenarsi tra le due sponde.

Continua così il pendolo di Roma tra Washington e Bruxelles, impossibile abbandonare una delle due parti, anche in ottica dazi.

Molte dichiarazioni degli scorsi giorni della prima cerchia attorno a Meloni, da Crosetto a Fazzolari, mandavano messaggi rassicuranti. Della serie: non tratteremo mai da soli perché è di competenza europea e perché siamo troppo deboli da soli, quindi loro ne sono consapevoli. Se si possono muovere delle critiche a Meloni, è la scommessa del Trump transazionale. Dovremo veramente vedere se Trump sosterrà ancora la Nato in uno scenario in cui Putin decidesse di invadere un Paese Baltico. Questi dubbi sono concreti in questo momento, ma lei fa finta che non esistano. Fin quando non succede un evento di quel tipo lei cerca di conservare la deterrenza americana sul suolo europeo, dicendo che tutto funziona e i vari ‘Make West Great Again‘.  Sembra quasi non voler prendere bene atto della realtà, cercando di lasciare una strada aperta all’esistenza di un’unità occidentale. Questa è la critica maggiore che le si può fare. Sul resto io penso che lei si stia muovendo bene, facendo appunto questo pendolo tra Washington e Bruxelles. Perché questa manovra è stata concordata con Bruxelles, perlomeno con Ursula von der Leyen. Nonostante non sia un’europeista convinta, sa benissimo che noi come Italia non ci possiamo permettere in questo momento di abbandonare la sponda europea.

Andando più nello specifico, quale può essere il punto di caduta sulla Difesa? Meloni ha annunciato il raggiungimento della soglia 2% del Pil, ma Trump l’ha già alzata, ipotizzando un 5%.

Lei ha cercato di cavarsela un po’ con il suo savoir faire. Da quel che ho visto, è il punto su cui Trump è stato più duro, anche nelle battute, visto che a un certo punto le dice “No, ma anche di più”. Immagino ci sia una forte pressione sull’Italia e su tutti i paesi europei che ancora non hanno fatto abbastanza. È ormai 10 anni che dovremmo aumentare le spese per la difesa, non perché te lo chiedono gli americani, ma perché lo richiedono le circostanze. Siamo un paese ‘cicala’, ma sappiamo che la nostra opinione pubblica di sentir parlare di riarmo, di difesa, di sicurezza, di spendere soldi in armi e di guerra non vuole sentire parlare. Viviamo in una bolla. Ed è un grosso problema. Ora il tempo per arrivare a questo 2% potrebbe essere molto breve, ma si aspettano investimenti anche di altro tipo in Europa. Regole comuni, un’integrazione europea nuova perché le economie che richiedono gli investimenti della difesa sono di scala enormi. Serve un’industria della difesa veramente europea, con accordi sui singoli progetti militari. Industrie che siano pan europee. Meloni lo sa bene.

Da quello che è emerso, sono stati promessi investimenti economici italiani negli Usa e l’acquisto di gas da Washington. Potrebbero essere un modo per addolcire Trump sui dazi?

La questione del gas credo sia principale, anche se poi gli americani tendono a scorporare le spese del gas e vogliono investimenti veri. Quindi ci sono altri investimenti, magari dell’Eni o simili, per riequilibrare una bilancia così sproporzionata. Perché Trump guarda ai beni concreti che arrivano nei porti Usa. Certo, riequilibrarla è molto difficile. Perché l’Italia è una sorta di trademark: molto forte su alcune cose che solo noi siamo capaci di produrre o vendere. Ma per riequilibrare la bilancia bisognerà trovare una serie di escamotage.

Nei colloqui sembra si sia parlato di nucleare, sia a livello civile che militare. Questo governo è propenso a reintrodurre l’energia nucleare, potrebbe essere aiutata dagli Usa? E dal punto di vista militare potrebbe aver cercato delle rassicurazioni sull’ombrello di Washington?

Su questo l’output non è stato molto chiaro. E secondo me dipenderà dall’andazzo che prenderanno proprio le relazioni tra Ue e Stati Uniti. Io credo che progressivamente gli investimenti italiani ed europei aumenteranno in ogni caso sul nucleare, perché portano a una maggiore indipendenza energetica. E perché ti potrebbero, anche solo teoricamente, porre in una condizione tecnologica di pensare anche a un armamento atomico indipendente, autonomo probabilmente in sede europea. I polacchi per esempio ne parlano apertamente, in un momento nel quale non ci si fida più dei propri vicini, un momento delle grandi potenze e di un ritorno dell’hard power, avere una deterrenza nucleare è un discrimine. Ad ogni modo se gli Stati Uniti continueranno ad avere una credibilità complessiva, gli europei non correranno in direzione di una deterrenza europea propria.

L’incontro tra Meloni e Trump, la visita di Vance, domani i colloqui tra Usa e Iran a Roma. Sono tutti assist per la premier italiana?

Meloni e la nostra diplomazia hanno capito che si è creato uno spazio importante tra gli Stati Uniti e l’Europa, e che nessuno dei grandi attori europei sta provando a ricoprirlo. Il Regno Unito di Keir Starmer si è accorto di essere rimasto tagliato fuori da tutto, non sono europei, ma neanche atlantici. Anche loro sono in una posizione obbligata di provare a fare da pontieri, però non sono percepiti da Trump ideologicamente vicini a lui. Ci prova anche Macron, che ha una sua visione, e lo fa perché ha conosciuto già Trump nel primo mandato. Ma Macron ha interessi parecchio divergenti con l’amministrazione Trump. Quindi c’è uno spazio importante per l’Italia e Meloni sta cercando di riempirlo. La cosa che le si può rimproverare alla fine è di non avere una maggiore capacità di indirizzare l’Unione europea e di lavorare poco con i partner europei. Siamo sempre marginali all’interno del contesto europeo. E questo è in parte anche colpa di Meloni che non è stata capace di costruire in questi due anni e mezzo forti relazioni nel Continente. Il suo nazionalismo prevale sempre su un convinto europeismo.

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