La Germania interverrà come terzo nel processo per genocidio intentato dal Sud Africa contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizi. L’annuncio non lascia dubbi sul perché Berlino prenda una posizione così chiara e, nell’attuale contesto politico, impopolare. «Data la storia della Germania e i crimini contro l’umanità dell’Olocausto, il governo è fortemente impegnato nella Convenzione contro il Genocidio. Questa convenzione è uno strumento centrale del diritto internazionale per implementare il principio del “mai più”. Siamo risolutamentecontrari alla sua strumentalizzazione politica.»
La denuncia tedesca è l’elemento più importante del processo, che si è appena aperto con due giorni di dichiarazioni di Sud Africa e Israele. I 15 giudici titolari, più i due ad hoc nominati dalle parti, hanno ascoltato posizioni scontate. Da una parte numero di vittime (altissimo secondo il ministero della Salute di Gaza, cioè Hamas), uso di armamento non di precisione, fino ad apartheid e chiusura dei confini. Dall’altro, la strage del 7 ottobre, l’uso delle strutture civili per scopi militari, la deviazione degli aiuti umanitari verso strutture o ville di Hamas, il confine chiuso dall’Egitto. Tutti aspetti già entrati da tempo nel dibattito pubblico.
La natura propagandistica dell’accusa è evidente dai co-firmatari della denuncia (dalla Lega Araba all’Iran), dalla presenza nella delegazione sud-africana di politici come Jeremy Corbyn (sospeso dal Labour nel 2020 per antisemitismo). Persino la pagina Wikipedia subito creata sul processo va in una direzione sola: quella che danneggia il prestigio delle Nazioni Unite, già macchiato dagli slogan inneggianti al 7 ottobre dei 3.000 maestri palestinesi dell’UNRWA.
Proprio per questo, la dichiarazione tedesca mette il dito nella piaga: accusare Israele di genocidio è una farsa imbarazzante. Parola di chi gli ebrei ha tentato davvero di eliminarli dalla faccia della Terra, mancando l’obiettivo per un pelo, ed è perciò ben consapevole di cosa il termine significhi.
A Berlino, dove oltre al proverbiale giudice non manca neppure la cultura giuridica, è chiaro che quello che si è aperto all’Aia non c’entra molto con la giustizia. Si tratta di lawfare, la trasformazione del diritto in arma, principalmente contro l’occidente. Il termine è documentato sin dagli anni Cinquanta, quando indicava cose che andavano dalle battaglie dei divorziandi alle tariffe speciali per gli avvocati. Nell’uso corrente si tratta della strategia di usare il diritto come sostituto dei mezzi militari tradizionali per il conseguimento di obbiettivi operativi. A teorizzarla sono nel 1999 Qiao Liang e Wang Xiangsui, i “due colonnelli” (ma in realtà commissari politici) cinesi, che la inseriscono nell’idea di “Guerra senza limiti”. Due anni dopo, il colonnello americano Charles Dunlap recepisce il termine e lo diffonde in Occidente. Da allora, è un tema di crescente importanza nelle relazioni internazionali.
A rendere attrattiva la lawfare sono la sua natura tecnica (e dunque a-valoriale) e asimmetrica. Per esempio, la Corte di Giustizia Internazionale ha giurisdizione solo sugli stati. Questo consente all’Autorità Nazionale Palestinese di unirsi alla denuncia, ma impedisce a Israele di denunciare Hamas, che pur amministrando Gaza in modo simil-statale, compreso il “ministero della Salute”, non è uno Stato. Allo stesso modo, il Sud Africa accusa lo Stato ebraico di intenzioni genocide fondate sul nulla ma Israele non può ribattere citando lo statuto e i documenti ufficiali di Hamas inneggianti alla sua distruzione.
L’asimmetria maggiore è però la cosiddetta Compliance-leverage disparity, ovvero lo sfruttamento (leverage) del diverso livello di rispetto delle norme (compliance). I paesi liberal-democratici tendono a rispettare le norme ed a farsi colpevolizzare per le inevitabili violazioni. Quelli non democratici, le ignorano. Si assiste così a distorsioni quali la presenza tra i denuncianti dell’Iran, paese nel quale non esistono le libertà civili e che appoggia apertamente il terrorismo Houthi, oggi in piena attività nel Mar Rosso. Oppure della Russia che usa liberamente le bombe a grappolo sin dalle prime fasi del conflitto, salvo denunciarne l’assai più tardivo uso da parte ucraina.
Ma, appunto, gli Zelensky devono rendere conto all’opinione pubblica occidentale, i Putin a nessuno. Nel 2022 la Russia ha ignorato l’ingiunzione della Corte Internazionale di Giustizia a cessare le ostilità in Ucraina e ritirarsi dai territori occupati, senza che questo le venga rinfacciato o fatto pagare. Se la Corte dovesse ordinare di interrompere la campagna contro Hamas, l’opinione pubblica occidentale imputerebbe a Israele di non ottemperare subito.
L’obbiettivo del Sud Africa e dei suoi alleati è dunque quello di creare una situazione nella quale Israele perde comunque: in termini militari, ritirandosi e quindi dando fiato a Hamas; in alternativa, in termini politici, rifiutando un ordine di un tribunale internazionale. Il gioco è chiaro a tutti, ma solo la Germania ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome.
E l’Italia? Nella patria del diritto, sul lawfare non manca solo la letteratura scientifica. Non esiste neppure la parola.