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Chi ha paura degli archivi aperti?

Istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare i collegamenti tra terrorismo interno e internazionale con quarant’anni di attentati, stragi e tentativi di destabilizzazione in Italia. Proposta, polemiche e stranezze

 

Garantire il diritto alla difesa, accelerare la declassificazione e digitalizzazione dei documenti, unificare presso la Camera dei Deputati dell’archivio digitale sulle stragi. Ma soprattutto, istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare i collegamenti tra terrorismo interno e internazionale con quarant’anni di attentati, stragi e tentativi di destabilizzazione in Italia. È la richiesta avanzata nella mozione firmata da sei deputati dei tre partiti di maggioranza, tra i quali il capogruppo di Fdi Tommaso Foti.

Prima ancora che il governo potesse leggerla, la mozione ha scatenato la reazione del “partito della stazione di Bologna”, incomprensibilmente ossessionato dal timore che la strage del 2 agosto 1980 non sia di matrice fascista. Dall’ex deputato Paolo Bolognesi all’attuale deputato Andrea De Maria, dall’assessore comunale Massimo Bugani a Sandro Ruotolo della segreteria nazionale Pd (nonché responsabile Informazione, Cultura, Culture e memoria” del partito guidato da Elly Schlein), si sono alzati gli scudi contro la possibilità che dall’eventuale commissione possa uscire qualcosa di sgradito. Magari di portata assai più ampia di un singolo, per quanto tragico, attentato. È facile capire perché.

TERRORISMO ITALIANO E TERRORISMO INTERNAZIONALE

Dopo la riuscita minimizzazione della Commissione Mitrokhin (2002-2006), la proposta di una nuova commissione d’inchiesta rinnova la battaglia sulla recente storia italiana, ed in particolare sulla natura, ruolo e responsabilità della sinistra “dura e pura”. Per semplificare: sulla narrazione degli opposti estremismi che insanguinarono l’Italia. Da un lato, la sinistra che ritiene di essere stata ostacolata con mezzi illeciti da parte di poteri deviati dello Stato; dall’altro, la destra, che rifiuta la pretesa superiorità morale della sinistra e non vuole addossarsi responsabilità dove non sente di averne (come appunto l’attentato alla stazione). C’è molto di più, ma fermiamoci qui.

In questo senso, negare le connessioni del terrorismo interno e internazionale con gli attentati, le stragi e i tentativi di avvenuti dal 1953 al 1989-1992 (appunto il tema della proposta di commissione d’inchiesta) significa poter sostituire la matrice estremista della sinistra con una sua presunta vocazione istituzionale. Da una lettura sistematica delle carte emergerebbe invece quasi certamente che negli anni Settanta in Italia ci fu un’alleanza tra terrorismo rosso e mediorientale, entrambi connessi all’URSS, contro la collocazione occidentale dell’Italia.

Poiché ricordare gli ambigui rapporti con l’URSS e il terrorismo rende impossibile tenere gli scheletri chiusi nei loro armadi, la proposta spaventa. È perciò che contro l’apertura generalizzata degli archivi, senza intermediazione politica, sta una composita galassia che vuole imporre qualcosa a metà tra storia di comodo e verità di Stato, sotto la dettatura dei pubblici ministeri, senza possibilità di critica storica. L’obbiettivo è però diventato molto più difficile dopo le elezioni del 2022, che hanno fatto saltare la copertura politica – più inconsapevole che convinta – a lungo garantita da sinistra alla lettura anti-occidentale. Lo stesso reiterato allarme sull’influenza politica sui processi sembra collegarsi al timore che non esista più il clima che in precedenza aveva garantito condanne anche davanti a vistosi dubbi.

IL “LODO MORO”

Il nocciolo di tutto è il “lodo Moro”, versione italiana della tendenza europea a trattare con il terrorismo palestinese in nome di un quieto vivere con retrogusto antisemita. Il “lodo” mostra infatti come le autorità italiane avessero perso quasi subito il controllo dello scambio tra tollerare le attività in Italia dei terroristi palestinesi e la promessa di non compiere attentati sul nostro territorio. Da un lato, i numerosi attentati di matrice palestinese (nel 1972-85 solo a Fiumicino si contano 12 episodi, con 140 tra morti e feriti), in chiara violazione dei patti; dall’altra i contatti operativi con quella che, senza un briciolo d’ironia, qualcuno degli ex terroristi chiama “la sinistra radicale, anche armata”, dai missili di Ortona del novembre 1979 alle segnalazioni di addestramento congiunto in Medio Oriente fino alla presenza in Italia del terrorista Carlos.

Se non proprio una kulturkampf, altrove il dibattito su questa ricostruzione sarebbe una historikerskreit, combattuta dagli studiosi a colpi di noiose monografie. In Italia è invece una battaglia ideologica, che in nome dell’identità politica tiene in vita schieramenti in larghissima parte superati dall’opinione pubblica. Non è casuale la convergenza di fatto tra il tentativo di espellere i non allineati dal comitato consultivo per la desecretazione dei documenti sulle stragi e il vistoso agitarsi di quanti reinterpretano la vicenda del terrorismo in chiave riduttiva (ma anche negazionista e autoassolutoria), come per esempio Enrico Galmozzi (Prima Linea, due condanne per omicidio), Paolo Perischetti (Brigate Comuniste Combattenti, condannato per concorso morale in omicidio), Sandro Padula (BR, ergastolo nel processo Moro 1, nonché marito di Christa-Margot Fröhlich, delle Revolutionäre Zellen). Né è un caso che gli scritti degli ex terroristi trovino accoglienza sulla stampa di quella stessa area politica che si affretta a minimizzare ogni nuova acquisizione archivistica.

È presto per dire se la commissione d’inchiesta andrà in porto e quali risultati otterrà. Sarebbe però grave se la sinistra affidasse la propria rappresentanza a personaggi in evidente conflitto d’interesse, come quando fu nominato consulente della Commissione Mitrokhin Giulietto Chiesa, ex corrispondente dell’Unità a Mosca, futuro cospirazionista e animatore di Pandora Tv, distributore esclusivo di Russia Today per l’Italia.

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