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Commissari europei: i fatti e le illusioni

Che cosa si dice e che cosa non si dice su ruolo e funzioni dei commissari europei. La lettera di Colombo

Caro direttore,

in molte università italiane, specialmente nei dipartimenti di “Scienze politiche” – fra i pochi ad inserire un disclaimer nella propria denominazione: una specie di excusatio non petita –, il malcapitato laureando è ormai costretto ad esplicitare, nella parte introduttiva della tesi, la c.d. domanda di ricerca. Guai a farne a meno: ne verrebbe soffocato lo scimmiottamento delle università straniere, dove tutti, anche (e soprattutto!) gli italiani costretti ad espatriare, sono più bravi, più buoni e – ve lo assicuro: ci sono passato anche io, da semplice turista, s’intende – più belli. In diritto, la domanda di ricerca è la stessa da prima della nascita di Gesù Cristo, ed ovviamente da prima della sua morte e resurrezione: da mihi factum, dabo tibi ius. Ma l’antico feticcio, a forza di autocensure esterofile, è stato forse dimenticato: a tal punto che, fra un asterisco e uno schwa, le approfondite analisi politiche sono talmente corrette da omettere bellamente il dato giuridico. Sui giornali di queste settimane sta andando in scena la rituale vulgata della nomina della Commissione europea, dopo che, poco più di un mese fa, si sono tenute le elezioni del Parlamento europeo.

La sensazione generale, leggendo a caso, è che la restituzione al pubblico di quanto sta accadendo nell’Unione sia imprecisa quanto basta da veicolare un messaggio fuorviante: e cioè, che il governo di ciascuno Stato membro sia impegnato nel tentativo di strappare un posto di prestigio “amico” nella nascente Commissione, vuoi operando nel negoziato con gli altri Stati membri in sede di Consiglio europeo e Consiglio, vuoi coagulando maggioranze “amiche” in seno al Parlamento europeo, specialmente attorno al gruppo dei deputati più “governativi”. Qualcuno azzarda proiezioni anche più circostanziate, ipotizzando che il successo del governo Meloni sarebbe centrato ove al commissario italiano vengano affidate competenze in aree come l’immigrazione o il PNRR, più sensibili per il nostro paese che, a quel punto, potrebbe giovarsi di un occhio più benevolo.

Sfortunatamente, il carattere che meglio descrive la Commissione europea è quello della indipendenza: una volta assunto il ruolo, il commissario europeo, che viene infatti scelto “tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”, recide i legami (anche) con lo Stato membro di cui possiede la cittadinanza. Tale obbligo, che ad abundantiam è ripetuto altrove nei Trattati, incontra specifica sanzione: nella possibilità che Consiglio o Commissione portino il suddetto, ove sorga il sospetto che abbia violato tale obbligo, di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione affinché essa ne pronunci le dimissioni.

Ma verosimilmente le conseguenze politiche per un commissario “di parte” verrebbero molto prima di quelle giudiziarie, costringendo il suo Presidente a dimissionarlo a prescindere dalle iniziative intraprese di fronte alla Corte. Dunque: ottenere un commissario italiano in un settore politico importante come l’immigrazione o il PNRR sarebbe senz’altro un successo diplomatico del governo Meloni, ma darebbe zero garanzie su un possibile favor nei confronti del nostro paese – non più di quanto se alle stesse competenze finisse per essere assegnato un commissario di cittadinanza francese.

Ancor più lontano dalla realtà è che tale esercizio si consumi in seno al Parlamento europeo, dove, al contrario di quanto accade in Consiglio europeo e in Consiglio, l’Italia non è proprio rappresentata. I deputati eletti nel nostro paese (che, per inciso, non necessariamente devono avere cittadinanza italiana) rappresentano l’orientamento politico espresso dall’elettorato, il quale poi si inserisce nel più ampio contesto europeo. Del resto, è di questo orientamento composito che il Consiglio europeo deve tenere conto nel designare il Presidente della Commissione, come avvenuto pochi giorni fa: il Parlamento europeo esprime l’elettorato di tutti i paesi membri, e non di uno solo.

Ovviamente, i partiti di maggioranza su cui poggia quello stesso governo che in seno al Consiglio europeo e al Consiglio rappresenta l’Italia (e lo fa anche nella procedura di nomina della Commissione) possono affratellarsi in una più ampia famiglia politica nel Parlamento europeo. E, insieme ai propri affini provenienti da altri paesi membri, tentare di coagulare una maggioranza sufficiente per nominare la Commissione europea. Ma, posto che ciò riesca (quanti partiti che formano la maggioranza di un governo nazionale fanno poi parte dello stesso o di un affine gruppo politico in seno al Parlamento europeo?), quella Commissione sarebbe l’espressione di un consenso politico europeo, e di certo non di un governo nazionale.

Ed infatti, come vuole il regolamento di procedura del Parlamento europeo, i gruppi politici si formano con un minimo di ventitré deputati provenienti da almeno un quarto degli Stati membri: non è possibile formare un gruppo su base nazionale, ma occorre associarsi a deputati di orientamento politico affine, provenienti da altri paesi membri. Ora, è comprensibile che la vulgata semplifichi: non sarebbe tale, diversamente. Per chi scrive è meno comprensibile che essa sia politicamente corretta: ma è solo una opinione personale. Che la restituzione in minimi termini alteri però il dato giuridico è meno digeribile e, soprattutto, molto pericolosa: alimenta, infatti, la disinformazione sul funzionamento dell’Unione europea, che è contigua alla disaffezione diffusa verso un progetto che ha donato all’Europa la pace più solida e duratura che questo continente abbia mai avuto.

Grazie dell’attenzione e cordiali saluti.

Michelangelo Colombo

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