Si possono tastare gli umori di quel complesso e stratificato universo che è il mondo arabo e islamico, in particolare di quella regione convenzionalmente denominata MENA (Middle East North Africa), dinanzi all’incendio che divampa intorno a Israele? Ecco il giro d’orizzonte che abbiamo compiuto avvalendoci dell’expertise della nota analista e docente di Cultura, storia e società dei paesi musulmani all’Università di Padova Michela Mercuri.
Qual è lo stato d’animo degli attori arabi e islamici, del Mediterraneo e del Medio Oriente, di fronte ai fatti che stanno sconvolgendo la regione?
Piuttosto che gettare uno sguardo complessivo su una realtà caratterizzata comunque da eterogeneità e sentimenti contrastanti, di cui è difficile dunque fornire un quadro d’insieme, mi concentrerei sul ruolo di alcuni attori fondamentali che sono invischiati nella guerra tra Israele e Iran.
Da chi partiamo?
Partirei senza dubbio dalle monarchie del Golfo, che stanno svolgendo in questo momento un ruolo molto importante. In particolare i Paesi che hanno firmato nel 2020 gli Accordi di Abramo con Israele sono in uno stato di fibrillazione perché non vogliono essere assolutamente trascinati nel conflitto, nel timore di forti ripercussioni anche sulle loro economie.
A cosa puntano questi Paesi in particolare in un momento così delicato?
Tutti questi Paesi mirano ad avere un Medio Oriente quanto più stabile possibile principalmente per portare avanti i loro affari. Segnalo in particolare la posizione dell’Arabia Saudita, che, come tutti sanno, prima del 7 ottobre dell’anno scorso stava lavorando ad un accordo di normalizzazione con Israele che ora è diventato impossibile. Ma per ritrovare un suo protagonismo si sta adesso adoperando per fungere da canale di comunicazione tra Israele e Iran. In tutto questo non dobbiamo dimenticare le mosse di un altro attore di primissimo piano.
Che sarebbe?
Mi riferisco al Qatar. Sappiamo molto bene dei legami che il Paese intrattiene con la leadership di Hamas, cosa che ha prestato il fianco alla frequente accusa di essere uno sponsor del terrorismo. Ora invece, fin dai primi giorni dello scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, Doha ha optato per giocare un ruolo di neutralità attiva partecipando a pieno titolo ai tavoli della trattativa insieme a Egitto, Usa e Israele.
E la Turchia?
La Turchia gioca una partita a parte essendosi schierata fin dall’inizio dalla parte del popolo palestinese. Ma lo ha fatto non per un reale credo nella causa, quanto per assecondare i propri disegni imperialistici. Erdogan nutre da tempo l’ambizione di allargare la propria sfera d’influenza in Medio Oriente e nel Nordafrica come abbiamo visto nelle crisi libica e Israele. Il presidente turco non ha fatto altro che prendere la palla al balzo per ergersi a campione della causa palestinese, riscuotendo il plauso delle piazze islamiche.
E l’Egitto?
Il Cairo si trova in questo momento in una posizione molto scomoda. Stiamo parlando di un Paese che non ha mai nutrito grossa simpatia, per usare un eufemismo, nei confronti della Repubblica islamica. In realtà l’anno scorso, durante il vertice arabo-islamico, il presidente egiziano Al Sisi e quello iraniano Raisi si incontrarono e tentarono un cauto riavvicinamento. Ma l’Egitto ora ha un altro problema.
Quale?
Ricordo che fin dal 1979 il Paese ha concluso un accordo di pace con Israele con cui conduce da allora relazioni costanti interrottesi solo nel 2012 nel breve interludio della presidenza Morsi. Ma adesso le relazioni sono tesissime alla luce del fatto che Gaza confina con il Sinai, con particolare riguardo al nodo del valico di Rafah. Sappiamo che Israele vorrebbe controllare questo valico e che l’Egitto si oppone fermamente, anche per il timore che milioni di palestinesi si riversino al di à del confine. Ma il vero timore dell’Egitto è un altro.
Quale?
Il timore è che, nel fuggi fuggi generale, elementi della Jihad islamica si vadano ad infiltrare nel Sinai dove è sempre vivo l’allarme terrorismo. Ricordiamo che il Sinai è stato la base di numerose organizzazioni terroristiche e che nel 2016 era una roccaforte dell’Isis.
Che eco ha la crisi nelle non lontane Libia e Tunisia?
In ambedue i Paesi si era subito levata alta la voce delle piazze a sostegno dei palestinesi. Adesso però si è tutto molto sopito. La Tunisia esce da elezioni molto complesse e soffre le conseguenze di una gravissima crisi economica che si esprime ad esempio attraverso un’inflazione record. La Libia invece è ancora ostaggio degli strascichi della guerra civile e dello strapotere delle milizie. Per questo motivo tutti e due i Paesi sono molto concentrati sui loro problemi interni facendo passare in secondo piano la questione palestinese.