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Tom Barrack

Come reagirebbero i mercati alle dimissioni di Trump

L’analisi di Alessandro Fugnoli, strategist dei fondi Kairos.

 

Marzo 2020. In una giornata fredda e umida Mike Pence giura come 46esimo presidente degli Stati Uniti. Il suo discorso di inaugurazione è visibilmente teso a trasmettere due messaggi. Da una parte è ben chiara la rivendicazione delle scelte condivise con Trump nei tre anni precedenti, in particolare il taglio delle tasse, la deregulation, il rafforzamento dell’apparato militare, lo sforzo per ripristinare il primato americano nel mondo.

Dall’altra c’è uno sforzo sottile ma evidente di comunicare la discontinuità antropologica, il cambiamento di stile, il rispetto della costituzione e il desiderio di ricostruire una terza via repubblicana alla Eisenhower, ben distinta dal neoconservatorismo di Bush e dal populismo divisivo di Trump. Pence è fortemente sostenuto dalla parte repubblicana del Deep State, è accettato dai magnati di Wall Street che temono la Warren, è avversato come Trump (e forse anche di più) dal mondo del politically correct, ma questa avversione è fredda e molto meno emotiva di quella di cui era stato oggetto Trump. Pence fatica a riempire gli stadi di sostenitori. La metà di quelli che vanno ad ascoltarlo vuole in realtà rendere omaggio a Trump, non a lui. Non fa niente, perché la base trumpiana, per vendicarsi, andrà tutta a votare per lui fra otto mesi. Sulla carta Pence potrà recuperare una parte dell’elettorato femminile bianco suburbano, il grande punto debole dell’abrasivo Trump, ma sarà una battaglia molto difficile se dall’altra parte ci sarà la Warren. L’impeachment di Trump era partito molto debole. I capi d’accusa iniziali erano di scarsa consistenza, più un impeachment in cerca di una causa che viceversa. I mercati avevano mostrato qualche preoccupazione, ma Trump li aveva prontamente sostenuti addolcendo i toni verso la Cina e mostrandosi più disponibile verso un accordo.

Così facendo, tuttavia, Trump aveva mostrato una debolezza inaccettabile in un personaggio che era solito presentarsi come maschio alfa e aveva dato lo spunto alla Warren, per l’occasione divenuta profondamente anticinese, per attaccarlo da destra. La Warren era del resto subito apparsa la vera beneficiaria della crisi, dal momento che Biden si indeboliva ogni volta che, parlando di impeachment, si finiva con il parlare di Ucraina. Trump aveva mostrato all’inizio un alto livello di combattività, la stessa reazione di Nixon all’avvio del Watergate. Con il passare del tempo, la combattività era rimasta, ma l’azione si era fatta più confusa e meno lucida e proprio su questo contavano i democratici nel loro bombardamento quotidiano. La camera aveva formalizzato il rinvio a giudizio e la richiesta di impeachment già in dicembre, senza troppi problemi. La sentenza di condanna, in base alla costituzione, avrebbe però richiesto i due terzi del senato e quindi una rottura del fronte repubblicano a difesa di Trump. Questa rottura era stata giudicata a lungo impossibile e per questo motivo Wall Street, aiutata da un taglio dei tassi in ottobre e da un altro in dicembre, aveva chiuso il 2019 sui massimi. A fare cambiare idea ai senatori repubblicani, inizialmente pochissimi e poi via via più numerosi, erano sopraggiunti i sondaggi sfavorevoli a Trump e, ancora di più, quelli sfavorevoli a loro nei loro collegi.

L’alternativa, Mike Pence, aveva del resto goduto sempre di una popolarità più alta rispetto a Trump. Il margine di Pence su Trump, che nel febbraio 2019 era stato misurato in 5 punti, era lentamente cresciuto, anche se, incredibilmente, un 12 per cento di americani ancora non sapeva chi fosse il suo vicepresidente. Alla fine di febbraio, seguendo alla lettera il copione della caduta di Nixon, un gruppo di senatori repubblicani si era recato alla Casa Bianca per proporre a Trump di evitare l’ignominia dell’impeachment dimettendosi. Come Nixon, Trump aveva annunciato in televisione la sua sconfitta con toni cupi e rabbiosi. In quei giorni, ovviamente, la borsa era scesa.

Oggi, marzo 2020, la borsa ha recuperato quello che ha perduto in febbraio, ma la volatilità rimane molto alta. La luna di miele per Pence si preannuncia breve e agitata. La sua sarà una presidenza brevissima, molto più breve dei due anni e mezzo di Ford dopo Nixon. E tuttavia non tutto è perduto per i repubblicani, anzi. Pence, come tutti i vicepresidenti, ha svolto bene il suo compito principale, che era quello di non fare ombra al presidente, ma non ha passato il tempo occupandosi di nobili cause come la lotta alla droga o la difesa delle specie protette, bensì allargando la sua base di potere, già forte nell’America devota e conservatrice, all’apparato militare-industriale e a parte del Deep State. Tra lui e la Warren i giochi sono aperti e lo saranno ancora di più se tra i due, dopo l’uscita di scena di Biden, ritornerà in corsa un centrista come Bloomberg. Fantapolitica? Certo, ma possibile. Abbiamo provato a disegnare uno scenario ancora poco scontato dal mercato, ma in realtà verosimile, come verosimili potrebbero essere nei prossimi mesi molti altri esiti. Mancano 14 mesi alle elezioni ma il clima politico è già molto caldo e non è difficile immaginare per il 2020 uno scontro senza precedenti nell’ultimo secolo di storia americana. Sbilanciarsi oggi in un senso o nell’altro in previsione di questo o quell’esito non ha nessun senso.

I sondaggi, l’unico strumento in mano al pubblico, sono tanto più inaffidabili quanto più acuto è lo scontro politico. Nessuno ha veramente idea di come voteranno gli americani e soprattutto di quanti andranno a votare, il vero fattore decisivo. Quello che ha senso fare oggi è interiorizzare la dispersione delle alternative possibili e la loro radicalità. È difficile farlo in un contesto in cui tutto sembra invitarci a fare l’opposto, a ipotizzare cioè il mantenimento all’infinito di questa nicchia protetta dalle banche centrali che tutto sembrano cercare fuorché una debolezza dei mercati. È la ricorrente illusione di avere trovato il sistema per farla franca e evitare la mortalità dei cicli storici, politici ed economici. In pratica tutto questo significa non dare troppo peso alla volatilità dei prossimi tre-quattro mesi ma darne molto a quella che potrà arrivare dopo.

Poiché tra gli scenari possibili ci sono anche quelli favorevoli non si tratta di ridurre drasticamente qualsiasi esposizione al rischio, anche perché oggi tutto è a rischio, incluso il cash a tassi negativi. Si tratta dunque di diversificare il rischio e avere una parte di portafoglio pronta a funzionare bene in caso di recessione e un’altra che funzioni in caso di reflazione e riaccelerazione. Vasto programma, ma abbiamo ancora tempo per disegnarlo.

(testo della newsletter Il Rosso e il Nero)

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