Mi pare di capire che nei bar Sport della Penisola (e nei talk show di prima serata) l’analisi corrente della tragedia afghana si riassuma in pochi concetti: le truppe occidentali sono andate a portare la democrazia (qui sorge il primo diverbio con coloro che attribuiscono ogni responsabilità all’imperialismo yankee) e nonostante venti anni di guerra non ci sono riusciti perché la democrazia non si esporta. In verità molte cose erano cambiate nelle zone controllate dalle missioni della Nato, non solo a livello delle istituzioni, ma anche nella normalità del vivere civile. In fondo, la prima condizione della libertà – disse un tale – è quella di pensare che a suonare al campanello di casa nelle prime ore del mattino sia il lattaio.
Le strategie geopolitiche e militari si riconvertono quando è necessario. Negli ultimi i rapporti con l’Islam hanno subito un salto di qualità: il terrorismo è arrivato a domicilio anche in Europa. Perché allora non rendersi conto che in Afghanistan, come in tante altre località sparse nel mondo, l’Occidente non era più all’offensiva, non esportava la democrazia a casa di altri, ma difendeva la propria.
Si dice che gli americani si siano stancati di essere il poliziotto del mondo, a fianco di alleati che si affidano in toto alle loro armi. Se è così dobbiamo cominciare a preoccuparci e soprattutto devono farlo quei Paesi la cui collocazione dalla parte giusta è garantita da decenni dalle truppe americane.
Stando ai dati raccolti nel Base Structure Report del dipartimento della Difesa (ultima edizione disponibile datata 2018), le installazioni sono oltre 800. Vanno da complessi compound fino a piccoli avamposti come la base di Al-Tanf nel deserto siriano.
Le forze sono distribuite in oltre 80 Paesi, con ovviamente la Germania al primo posto (oltre 190 strutture) seguita da Giappone (circa 120), Corea del Sud (80) e Italia (44). Queste però sono quelle più note,
il Pentagono, infatti, omette quelle più sensibili: non ci sono dati per Afghanistan, Iraq, Siria, ma anche per Paesi come il Kosovo, Israele e Niger, dove al contrario sappiamo essere stata costruita un’enorme base per droni armati.
Di pari passo con le basi – come si apprende dalle riviste di politica internazionale – vanno i dislocamenti militari. Le truppe americane stanziate fuori dai confini sono quasi 200mila. E anche qui i Paesi alleati storici mantengono sui loro territori le maggiori destinazioni: Giappone (55mila), Germania (35mila), Corea del Sud (26mila) e Italia (12mila).
Come per le strutture militari, anche per le truppe i dati non sono trasparenti. Negli open data del dipartimento della Difesa non vengono infatti riportate le truppe in molti scenari delicati.
Questo dispiegamento di forze – spiegano gli specialisti – ha un costo notevole per i contribuenti americani. Un costo che non è neanche facile quantificare. Secondo un rapporto del think tank Rand per il mantenimento di una base servono tra i 50 e i 200 milioni l’anno. Anche il calcolo complessivo non è semplice.
Il Cbo, l’ufficio del Congresso Usa che si occupa di fornire resoconti a senatori e deputati, . Secondo i dati del 2016 concentrati su circa 200 strutture che impiegano il 90% del personale in servizio, la spesa complessiva è stata di circa 25 miliardi di dollari. Il dato potrebbe essere però sottostimato.
Secondo il ricercatore David Vine, autore del libro “Base Nation”, la cifra supererebbe i 50 miliardi l’anno. Un conto al quale però andrebbero aggiunti anche i fondi per le overseas contingency operations, cioè tutte le operazioni militari fuori dall’ordinaria manutenzione, quantificate intorno ai 68-70 miliardi.
Nel contesto di un impegno tanto diffuso, oneroso e di antica , era divenuta insostenibile proprio la missione in Afghanistan? E era forse venuta meno ogni importanza strategica? Sarebbe bastato uno sguardo alla carte geografica per capire l’importanza di quel Paese di sassi e di monti (e di importanti risorse naturali di cui i talebani non sanno che farsene perché trovano più conveniente il commercio dell’oppio)?
Negli Usa vi è sempre stata una forte tenenza isolazionista che metteva in discussione i rapporti con l’Europa. Woodrow Wilson, durante la prima guerra mondiale, fu un protagonista decisivo della vittoria degli alleati prima, dei trattati di Versailles poi, del riordino internazionale che avrebbe dovuto assicurare la pace (la Società delle Nazioni). Il Congresso non ratificò i trattati e gli Usa rinunciarono così a quel ruolo di guida del mondo uscito dalla guerra che forse avrebbe evitato il secondo conflitto mondiale.
Anche l’Amministrazione di Franklin Delano Roosevelt venne trascinata in guerra dalla aggressione del Giappone. In precedenza Roosevelt era riuscito soltanto a far approvare dal Congresso la legge ‘affitti e prestiti’ che permise di rifornire di armamenti l’Inghilterra nella sua lotta solitaria contro la Germania nazista. Poi lo sforzo bellico maggiore degli Usa venne destinato alla guerra in Europa.
La politica del ‘’contenimento’’ di Harry Truman riguardò soprattutto l’espansione sovietica in Europa (il ponte aereo di Berlino si rivelò un’operazione strategica importantissima).
Sono sempre stati i rapporti col Vecchio Continente a caratterizzare la politica internazionale degli Usa in una prospettiva ora isolazionista ora orientata ai principi di quella Carta Atlantica sottoscritta il 14 agosto 1941 da Roosevelt e Churchill, nella baia di Terranova. Non a caso dopo l’uscita di scena di Trump,
Biden ha compiuto il suo tour per l’Europa all’insegna dell’America is back. Per un tragico destino non si è accorto che il ‘’ritorno’’ dell’America passava anche da una revisione della scelta di uscire dall’Afghanistan; né i governi europei glielo hanno avuto l’avvertenza di farlo presente.
Oggi l’Europa si accorge di essere sempre più in difficoltà nei confronti dell’influenza russo e cinese; si è resa conto che l’indipendenza si difende con le armi e che dal 1945 in poi ha ritenuto che ‘’il lavoro sporco’’ spettasse agli americani (non a caso i paesi ex satelliti non hanno esitato ad aderire alla Nato non appena è stato loro possibile).
Nelle cancellerie si ipotizza la costituzione di un esercito europeo, come se fossero superati i motivi del fallimento della CED nel 1952 (da cui prese avvio la prospettiva di un mercato comune dell’economia). Verrebbe da dire però che ‘’chi ha vissuto cent’anni di solitudine non avrà un’atra occasione nella vita’’…