Nei giorni in cui si svolge il primo esame della legge di bilancio può essere utile richiamare la più convincente definizione del populismo politico. Questo si dovrebbe riconoscere nella sistematica propensione a rispondere ad ogni domanda sociale in termini di corrispondente incremento della spesa pubblica, specie di parte corrente.
Dalla sanità alla assistenza, dalla previdenza alla istruzione, dai salari alla competitività delle imprese, dalla transizione ecologica a quella tecnologica, la proposta populista si pone sempre a carico dello Stato. E quando qualcuno solleva il legittimo dubbio della sua sostenibilità finanziaria, la tesi della difesa accenna a una non meglio precisata tassazione dei redditi più alti e degli extraprofitti. Senza peraltro che gli emendamenti di spesa siano accompagnati da coperture convincenti in questo senso.
Alcuni decenni fa fu depositata una proposta di modifica dei regolamenti parlamentari rivolta ad introdurre nella sessione di bilancio l’obbligo di depositare una o o più ipotesi di manovra alternativa rispettosa dei “saldi” di bilancio preventivamente approvati. Si sarebbero così impediti i singoli emendamenti “irresponsabili” per privilegiare l’esame trasparente di diversi orientamenti delle spese e delle entrate da votare in blocco. In altri Parlamenti d’altronde la legge di bilancio può essere solo approvata o bocciata.
Quella tesi esalterebbe la funzione del Parlamento, renderebbe comprensibile il confronto politico, semplificherebbe i tempi e i modi della sessione di bilancio. Utopia? Probabilmente sì ma taglierebbe le unghie al populismo politico.