I leader europei hanno a che fare con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan da vent’anni e sono abituati alla sua oratoria e alle sue spedizioni militari. Ma ora, uno scenario a lungo ritenuto improbabile – l’elezione del leader dell’opposizione Kemal Kiliçdaroglu – è plausibile, se non probabile. I leader europei sono pronti ad affrontare le conseguenze, positive o problematiche, di un simile cambio di regime? Riflessioni ipotetiche dell’ex ambasciatore Ue in Turchia, Marc Pierini, su Le Monde.
Si può facilmente immaginare la reazione della maggioranza al tavolo del Consiglio europeo, ovvero un udibile sospiro di sollievo. Basta con le battute sui cancellieri tedeschi come “nazisti”, sui leader olandesi come “avanzi di nazismo” o con gli insulti rivolti al presidente francese. Più fondamentalmente, la liberazione dei prigionieri di coscienza, il percorso verso un rapido ritorno allo Stato di diritto, il ripristino necessariamente più lungo di una democrazia parlamentare, la pulizia di un sistema giudiziario finora altamente politicizzato, l’emergere di una stampa libera sarebbero motivo di soddisfazione per i leader politici europei e, non da ultimo, per gli investitori occidentali.
La conseguenza tangibile di un tale cambiamento di tono sarebbe la ripresa di un dialogo a più voci, oggi fermo, su un’ampia gamma di argomenti: politica estera, relazioni commerciali (soprattutto intorno all’Unione doganale) e finanziarie, visti, migrazioni, questioni ambientali, autonomia strategica, Comunità politica europea e, perché no, industria della difesa. Chiaramente, il rispetto e la fiducia ritornerebbero.
L’INEVITABILE PRESSIONE RUSSA
L’altra conseguenza, altamente strategica, deriverebbe dalla promessa elettorale del “Tavolo dei Sei” – la coalizione di opposizione guidata da Kiliçdaroglu – di un ritorno alla diplomazia istituzionalizzata e di una normalizzazione delle relazioni con la NATO. Ciò significherebbe modificare l’attuale “politica equilibrata” tra la NATO e la Russia, attraverso la quale la Turchia ha creato un’ambiguità strategica che avvantaggia solo Mosca e non la pace, contrariamente alla costante messa in scena mediatica di Ankara.
L’attuazione di queste intenzioni da parte del nuovo presidente deve ancora essere valutata. Cosa accadrebbe all’aggiramento delle sanzioni occidentali contro la Russia attraverso operazioni industriali nel settore petrolchimico turco? Le forze turche parteciperanno alle operazioni difensive della NATO sul suo fianco orientale, dall’Estonia alla Romania? Porrebbero fine alla presenza dei missili russi S400 sul territorio turco, installati nel luglio 2019 a spese della difesa missilistica dell’Alleanza Atlantica? Si tratta di temi molto delicati, ma anche speranzosi in un momento in cui è in gioco l’equilibrio strategico del continente europeo.
Tuttavia, i nuovi leader turchi saranno in grado di resistere all’inevitabile pressione russa in queste diverse aree di gioco? Tanto più che Mosca potrebbe attivare le tattiche di pressione accuratamente messe in atto durante l’era Erdogan: vendita di gas con il gasdotto TurkStream, la centrale nucleare di Akkuyu (di proprietà russa), il turismo russo o addirittura acquisti agricoli.
E il ritorno dei rifugiati siriani. Tali iniziative complicherebbero inevitabilmente la lotta delle forze occidentali contro le forze dello Stato Islamico nella Siria centro-orientale. Inoltre, una politica di rimpatrio sistematico dei rifugiati siriani nel loro Paese, in assenza di un quadro giuridico concordato a livello internazionale, rappresenterebbe un grave rischio per la loro sicurezza e l’esercizio dei loro diritti. Sarebbe necessario gestire una complessa rete di differenze politiche, militari e umanitarie.
RILANCIARE IL DIALOGO
Ancora più controversa sarebbe la gestione della questione cipriota. Lo status della comunità turco-cipriota è infatti una questione consensuale in Turchia e l’adesione della Repubblica di Cipro all’Unione europea, avvenuta il 1° maggio 2004 senza aver prima raggiunto un accordo globale sul futuro dell’isola, non è mai stata accettata dall’intera classe politica turca. La concessione alla Turchia dello status di negoziatore per l’adesione all’Ue nel dicembre 2004 non ha fatto nulla per dissipare questa frustrazione. Finora non è stato raggiunto alcun accordo sull’equilibrio interno tra le comunità greca e turca a Cipro o sui loro diritti relativi alle potenziali risorse naturali nelle acque territoriali dell’isola, e non ci si può aspettare una maggiore flessibilità su questi temi dopo l’eventuale arrivo di un nuovo presidente in Turchia.
Non è questa la sede per speculare sui risultati delle elezioni presidenziali e parlamentari del 14 maggio, perché queste elezioni appartengono solo ai cittadini turchi. Dall’estero, si può solo sperare che si svolgano in modo regolare, anche per i cittadini colpiti (e, per molti, sfollati) dai catastrofici terremoti nel sud-est del Paese.
D’altra parte, i leader europei devono prepararsi all’eventualità di un’alternanza ai vertici dello Stato turco, o addirittura di una coabitazione tra un nuovo presidente e un parlamento rimasto per lo più fedele al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Prepararsi non significa solo redigere con cura le consuete dichiarazioni di congratulazioni e incoraggiamento, ma soprattutto rilanciare il dialogo tra la Turchia e l’Unione europea, attualmente inesistente ai massimi livelli, e organizzare un sostegno concreto su nuove basi. L’elenco dei temi da discutere è vasto, positivo e spinoso al tempo stesso, ma offre un’occasione unica per riallacciare i rapporti con un Paese partner che pesa sul futuro dell’intero continente europeo.
(Estratto dalla rassegna stampa estera a cura di eprcomunicazione)