Non sarà stato lo “schiaffo al Quirinale” gridato dalla Stampa con l’aggravante del “doppio gioco della premier”, che avrebbe promesso attenzione e rispetto per le riserve, preoccupazioni e quant’altro espostele personalmente dal capo dello Stato qualche giorno fa, ma non è stata neppure una carezza quella che la Camera ha riservato a Sergio Mattarella respingendo con 187 voti contro 124 una direttiva europea contro la corruzione. Che era fra gli ostacoli o ragioni opposte dal presidente della Repubblica all’abolizione del reato di abuso d’ufficio contenuta in quella specie di antipasto della riforma della giustizia costituto da un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri. E a lungo trattenuto, non a caso, da Mattarella sulla sua scrivania prima di autorizzarne la presentazione al Parlamento.
In mancanza delle modifiche che si aspettava e forse ancora si aspetta, anche dopo il segnale giuntogli dalla Camera, che esaminerà in seconda lettura il provvedimento arrivato al Senato per l’esame, il capo dello Stato potrà rimandarlo al Parlamento per un altro voto. E’ un diritto riconosciutogli dalla Costituzione in un articolo che però l’obbliga alla firma e alla promulgazione nel caso di una conferma della precedente deliberazione. Alla quale il capo dello Stato o si arrende e firma o si dimette, se vuole continuare a dissentire rifiutando un atto a quel punto dovuto, cioè violando, tradendo e quant’altro la Costituzione.
Qui non siamo più nelle acque delle chiacchiere che hanno sinora contrassegnato, tra polemiche, messaggini e altri segnali sul tema da più di trent’anni scivoloso della giustizia, ma navighiamo, o cominciano a navigare tra fatti concreti. Quel tabellone della Camera con i risultati della votazione contro la direttiva europea sulla corruzione o anticorruzione – chiamatela come volete – non è stato e non è uno dei soliti fotomontaggi che Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, tra gli applausi o i sorrisi compiaciuti dei grillini, regala ai lettori per raccontare a suo modo avvenimenti e desideri. Proprio oggi i numeri della Camera si trovano tradotti nelle risate di soddisfazione e di sfida di Antonio Tajani, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Matteo Renzi e Carlo Calenda – da sinistra a destra e dall’alto in basso – sopra a una valigia di euro guadagnati o spesi in corruzione.
Il guardasigilli Carlo Nordio in questo fotomontaggio è stato risparmiato, e lasciato dal Fatto e da altri giornali di vario colore, tendenza o area nell’umiliazione infertagli, tra realtà e immaginazione, dalla premier diffidandolo praticamente sul versante per niente prioritario della rimodulazione, o come altro si voglia chiamare, del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Un reato peraltro contenuto non nel codice penale -o non ancora- ma in alcune sentenze confermate sino alla Cassazione mescolando altri articoli dello stesso codice, come se si potesse usarli come i barman fanno con i liquori o simili.