L’ennesimo avvertimento è arrivato con 17 navi da guerra, altrettante della guardia costiera e 125 aerei. Per un giorno intero la Cina ha voluto far sentire di essere sempre più vicina alla “sua” Taiwan (“la riunificazione della nostra madrepatria è storicamente inarrestabile”, aveva ammonito Xi Jinping nel discorso dell’ultimo Capodanno), e perciò riecco le grandi manovre attorno all’isola indipendente, ma minacciata nell’Asia orientale. Quasi alla fine dell’altro mondo.
Per il suo rivendicato obiettivo Pechino ricorre sempre più alla soprannominata “strategia dell’anaconda”: accerchiare il territorio reclamato con esercitazioni militari che simulano un blocco navale. Intimorire, senza sparare un colpo. Ma, così facendo, e ripetendolo (anche a maggio c’era stata un’analoga, eppur meno massiccia, circumnavigazione), si parla a nuora di Taipei, la democratica capitale della sedicesima economia del pianeta, perché suocera a Washington intenda: dal commercio alle importazioni, alla stessa sovranità annunciata per un domani non lontano, qui comanda la Cina. In barba al mezzo miliardo di dollari deciso dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, per aiutare Taiwan a difendersi, e a prescindere dalla contestata visita (agosto 2022) di Nancy Pelosi, speaker della Camera, al piccolo, ma importante Stato sott’assedio situato a circa 180 km dalla Cina. Una visita che Pechino considerò un’interferenza negli affari geopolitici suoi.
Ma è proprio la geopolitica che dà all’isola pretesa un rilevante ruolo internazionale. Il 60% dei semiconduttori utilizzati nell’universo sono “made in Taiwan”. Quella produzione contribuisce a far funzionare tutto ciò che è elettronico e di cui mai più potremmo fare a meno, dai frigoriferi alle auto, dai computer ai telefonini, ai tablet, al digitale.
E poi in quel mare di assolutismo che regna nel continente fra Cina e Russia (alleati pure nella “cooperazione militare”), i taiwanesi rappresentano una preziosa eccezione di Repubblica semipresidenziale. Per quanto rispecchi una realtà piccola – neanche 24 milioni di abitanti – e distante dall’Occidente, il Paese esprime una diversità asiatica rispetto ai paradigmi illiberali e neo-imperiali di Vladimir Putin e di Xi Jinping. Anche se solo una dozzina di Stati al mondo ne riconosce la formale esistenza, pur di non indispettire il gigante cinese.
Ma questo sottile equilibrio che vede gli Stati Uniti (e con meno evidenza il Giappone) a fianco della nazione insulare, senza ovviamente compromettere gli irrinunciabili rapporti con la Cina, oggi rischia molto, e non solo per la strategia dell’anaconda da parte del Drago.
La sola idea di un potenziale nuovo conflitto oltre a quelli già in corso in Medio Oriente e in Ucraina, con l’Europa che nel mentre non tocca palla in ambito politico-diplomatico e con l’America distratta dalle sue elezioni per la Casa Bianca, rende la minaccia ancor più insidiosa per tutti.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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