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Ecco perché per Giorgia Meloni a Pechino non sarà una passeggiata di salute

Ad attendere la presidente Giorgia Meloni a Pechino ci sarà un padrone di casa, Xi Jinping, preoccupato per l’economia che va a rotoli e ancora di più per disoccupazione giovanile e scontento tra gli studenti. L'analisi di Francesco Galietti, esperto di scenari strategici e fondatore di Policy Sonar

In autunno Giorgia Meloni sarà attesa dalle proverbiali fatiche di Ercole. Non dovrà infatti solo fare i conti con la manovra di Bilancio e con gli arcigni guardiani delle finanze pubbliche, con le parti sociali che presentano il conto e con i propri partner di coalizione che promettono di non essere da meno. Anche il fronte della politica internazionale, dove Meloni ha finora giostrato con abilità, si preannuncia ricco di sfide. Meloni non può permettersi di sbagliare un solo colpo. A fine anno, infatti, dovrà raccogliere dal Giappone il testimone della presidenza G7. Il calendario serrato delle ministeriali e del summit dei capi di Stato e di Governo scandirà il ritmo del primo semestre del prossimo anno, sovrapponendosi alle elezioni Ue in primavera e al cantiere della nuova Commissione, che promette di arrivare all’autunno inoltrato.

Per Meloni, quindi, è importante arrivare nel migliore dei modi a questi appuntamenti, così da proiettare all’esterno un’immagine di solidità politica. In questo gioco di specchi in cui politica estera, vertici internazionali e consenso domestico si confondono, un passaggio particolarmente delicato sarà il rendez-vous a Pechino con Xi Jinping. Le date dell’incontro non sono ancora note. La visita in Cina è infatti nota da molti mesi, ma è probabile che Meloni mettesse in conto di volare prima a Washington che a Pechino. Sennonché la visita alla Casa Bianca è avvenuto da poco, nel luglio scorso. Con il risultato che la visita a Xi sarà in autunno. L’incontro avrà luogo appena prima che scatti il rinnovo automatico dell’Accordo sulle Vie della Seta siglato in pompa magna nel 2019.

Tra gli addetti ai lavori, il consenso diffuso è che Meloni voglia mettere personalmente a parte Xi della volontà italiana di recedere dall’accordo. Pur optando per un deciso posizionamento atlantista, Meloni è stata attenta a non mettere Xi davanti a un fatto compiuto. Gli vuole, per così dire, salvare la faccia, nel tentativo di non spezzare il filo del rapporto con Pechino.

Ad attendere Meloni, però, sarà uno Xi con i nervi a fior di pelle. A preoccuparlo non può che essere la violenta ‘sbolla’ immobiliare cinese, le cui scosse sono state avvertite in tutto il mondo, e il fuggi fuggi degli investitori globali dalla Cina. In passato le autorità cinesi avevano reagito ai rallentamenti nella propria crescita tramite ondate di investimenti infrastrutturali e immobiliari. Con questo schema, erano state capaci di scavallare la crisi asiatica del 1997, e anche il tracollo del surplus commerciale nel periodo 2009-2011. Questa capacità di tenere elevata i numeri della crescita aveva a sua volta illuso i mercati che la Cina avesse una capacità pressoché unica di tenere sotto controllo la volatilità domestica. In realtà, la presunta soluzione ha finito a sua volta per alimentare una spirale di proporzione enormi di investimenti improduttivi in infrastrutture e immobili, con una sovra-dipendenza da debito.

C’è dell’altro: Xi è preoccupato a tal punto dalla messa a nudo dei problemi economici cinesi da arrivare a vietare la pubblicazione delle statistiche sulla disoccupazione giovanile. In un recente editoriale sul Financial Times, Gideon Rachman ha puntato il dito sulla combinazione tra il forte malessere nelle fasce più giovani della popolazione cinese e la demografia declinante. Quest’ultima è il frutto della scellerata one-child policy applicata ininterrottamente tra il 1980 e il 2016. Il risultato è presto visto: l’anno scorso la Cina ha iniziato a registrare per la prima volta da 60 anni a questa parte un declino demografico. La Cina, insomma, si accoda a Giappone e Corea, che da anni fanno i conti con una demografia di ‘tempie bianche’. Con un non trascurabile dettaglio: prima di invecchiare, Giappone e Corea hanno avuto il tempo di arricchirsi. La Cina, che ha accelerato artificialmente il declino demografico, no.

Quanto ai giovani, nonostante la censura di Stato si presume che il tasso di disoccupazione giovanile sfori il 20%. Il malessere è particolarmente forte anche tra gli studenti. Nella storia moderna cinese, le sfide più risolute all’ordine costituito sono venute proprio da giovani e studenti. Basti pensare ai moti studenteschi del 1919 e del 1989, brutalmente repressi, ma anche ai movimenti di protesta di Hong Kong del 2019-2020, animati da studenti. Per non parlare delle impressionanti manifestazioni di piazza che recentemente hanno costretto proprio Xi ad archiviare le politiche zero-Covid, ormai strumento consolidato di controllo sociale del regime cinese.

 

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