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Investimento Cina

Ecco potenzialità e sfide dei rapporti commerciali fra Cina e Italia. Report Cesi

Che cosa va e che non va nelle relazioni economiche tra Italia e Cina. Report di Francesca Manenti, senior analyst del CeSI (Centro Studi Internazionali presieduto da Andrea Margelletti)

L’importanza del rapporto con l’estero per la sostenibilità sia dell’economia interna sia di quel nuovo modello di crescita economica postulata da Xi potrebbe rivelarsi ora però anche uno dei principali fattori di criticità per la realizzazione della strategia di Pechino.

La portata e le modalità con i quali le aziende cinesi hanno condotto le proprie operazioni finanziarie in questi anni, infatti, hanno generato un diffuso scetticismo in Europa rispetto ai possibili effetti collaterali derivanti da una presenza capillare di aziende cinesi in molti Paesi, in termini di opportunità economica e influenza politica.

La rigida legislazione nazionale in materia di investimenti stranieri in Cina, da un lato, e la crescente attività di investitori cinesi in settori strategici (quali infrastrutture, finanza, tecnologia, telecomunicazioni), dall’altro, hanno alimentato le critiche rivolte a Pechino da parte degli interlocutori esteri circa la mancanza di una reciprocità in termini di vantaggi derivanti dal rapporto finanziario e, di conseguenza, riguardo all’interesse di utilizzare la propria leva economica per smussare gli angoli di eventuali tavoli di discussione politica.

Questa tendenza trova la propria più lampante conferma nella recente approvazione da parte del Consiglio dell’Unione Europea del nuovo quadro per il controllo degli  investimenti esteri diretti (Foreign Direct Investment – FDI) all’interno degli Stati membri, che dovrebbe entrare in vigore a partire da aprile. L’iniziativa, nata su proposta del Presidente della Commissione Europe Jean-Claude Junker a fine 2107, nasce dalla volontà di Bruxelles di creare una framework di riferimento in materia di supervisione dei flussi di capitali in ingresso nell’Unione, per permettere ai governi di uniformare le diverse normative.

Il nuovo quadro, che ha come obiettivo esplicito la salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico, dovrebbe creare un meccanismo di scambio di informazioni, best practices ed esperienza tra Stati e tra Stati e Commissione, per costruire una sorta di rete di sicurezza in grado di frenare investimenti potenzialmente pericolosi non solo per i diversi Paesi, ma anche per programmi comuni europei (quali Horizon 2020 o Galileo).

Benché l’autorizzazione finale dei diversi investimenti continuerà ad essere in capo ai governi nazionali, il nuovo quadro, approvato in poco più di un anno, lascia trasparire l’urgenza percepita in seno all’Unione, principale destinatario di investimenti diretti esteri al mondo, di avere nuovi strumenti di tutela della propria sicurezza, economica e politica. Non appare casuale, infatti, che il regolamento ponga l’accento sull’importanza di uno screening dei rapporti di un eventuale investitore con governi o Stati terzi e dei possibili effetti del relativo investimento su:

• infrastrutture critiche (sia fisiche sia virtuali) con particolare riferimento a energia, trasporti, servizi idrici, Difesa, mass media, telecomunicazioni, banche dati, infrastrutture finanziarie, strutture sensibili e terreni o proprietà immobiliari destinate all’uso di esse;

• Tecnologie sensibili e dual use, comprese intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori, cybersecurity, tecnologie per la Difesa e l’aerospazio, nanotecnologie, biotecnologie tecnologie per l’energia e il nucleare;

• Fornitura di beni primari, compresi risorse energetiche, materie prime e food security;

• Accesso a informazioni sensibili e dati personali, nonché loro uso e controllo;

• La libertà e l’indipendenza dei media. Il nuovo quadro, dunque, è destinato ad avere un impatto trasformativo, quanto meno indiretto, dell’ambiente entro il quale si sono fino ad ora mossi gli investimenti esteri.

Infatti, benché non ci siano vincoli formali per gli Stati membri o alcun intervento normativo con impatto diretto sulla natura aperta e liberale delle politiche in materia di FDI, l’iniziativa istituzionalizza, di fatto, un atteggiamento di maggior cautela ed attenzione da parte dell’Europa nella gestione di possibili operazioni considerate sensibili con partner esteri.

Questo cambiamento potrebbe avere conseguenze anche per la Cina, che, a partire da aprile, potrebbe riscontrare maggiori difficoltà nel concludere investimenti in quei settori che, fino ad ora, hanno rappresentato lo zoccolo duro della presenza finanziaria cinese nel Vecchio Continente. Per quanto non ci sia un diretto richiamo a Pechino, il nuovo quadro potrebbe rallentare, di fatto, l’arrivo dei capitali cinesi. Questa possibilità sembrerebbe trovare conferma nella preliminare opposizione alla proposta della Commissione da parte di alcuni tra i Paesi più interessati al rapporto finanziario con la Cina, quali Grecia, Portogallo e Lussemburgo.

L’effetto e la portata di questo irrigidimento, inoltre, potrebbero essere influenzati dall’evoluzione della rivalità in corso tra Cina e Stati Uniti, di cui l’Unione Europea sta diventando sempre più terreno di scontro più che arbitro esterno. Nel corso degli ultimi mesi, infatti, Washington ha avviato un’intensa campagna diplomatica per cercare di disincentivare i partner europei dal concedere nuovi spazi al rivale cinese, sia nell’ambito dei progetti legati alla BRI sia nel più ampio campo di applicazione delle nuove tecnologie.

Il caso più emblematico è sicuramente rappresentato dalla recente vicenda legata a Huawei e alla partita per lo sviluppo delle reti 5G, per la quale l’Amministrazione Trump ha paventato possibili ritorsioni economiche contro qualsiasi Paese europeo dovesse coinvolgere aziende cinesi nella realizzazione delle nuove infrastrutture.

In un momento in cui è in corso un’aperta competizione tra le due sponde del Pacifico per attestarsi o diventare la potenza di riferimento della nuova era dell’innovazione, il governo di Pechino guarda all’Europa come il possibile ago della bilancia.

Come postulato anche dalla stessa BRI, infatti, la Cina punta a ricostituire, almeno idealmente, un blocco euroasiatico che consenta a Pechino di modificare a proprio vantaggio la tradizionale postura del Vecchio Continente, da sempre orientata verso l’Atlantico più che verso Oriente.

In questo contesto, per cercare di mettere in sicurezza la solidità della propria strategia di crescita, il governo di Pechino potrebbe puntare a rilanciare la collaborazione con i Paesi europei attraverso un’apertura al compromesso su temi che da sempre sono al centro delle trattative tra Cina e UE in ambito economico e finanziario, quali la mancanza di reciprocità nelle condizioni di investimento, il ruolo delle aziende di Stato, interventi distorsivi dello Stato sulle condizioni di mercato.

Un primo passo in questa direzione potrebbe essere rappresentato dall’approvazione della riforma della legge sugli investimenti esteri, attualmente in discussione all’Assemblea nazionale e che dovrebbe essere definitivamente approvata entro la chiusura dei lavori. Il testo proposto andrebbe a modificare l’attuale legislazione per garantire una maggior apertura del sistema cinese agli investimenti provenienti dall’estero.

La nuova legge, infatti, dovrebbe garantire agli investitori stranieri lo stesso trattamento previsto per le aziende cinesi, ridurre la lista di settori ad oggi interdetti da operazioni con l’estero, nonché offrire maggiori garanzie in termini di tutela della proprietà intellettuale e di protezione da ogni forma di trasferimento di tecnologia. Nonostante contenga solo primi passi programmatici, la rapidità con la quale le autorità di Pechino stanno cercando di rendere operativa la riforma ha lanciato un chiaro segnale dell’urgenza percepita dal governo nel cominciare a togliere eventuali ostacoli che potrebbero diventare degli appigli per i più restii tra gli interlocutori stranieri per frenare la presenza della Cina all’estero.

 

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