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È Harris o Trump il candidato preferito dalla Cina?

In Cina domina l’incertezza su quale possa essere l’esito più sfavorevole tra la vittoria di Trump o di Harris alle elezioni presidenziali americane.

A Pechino si guarda con trepidazione allo svolgersi della campagna elettorale in America, e domina l’incertezza su quale possa essere l’esito più sfavorevole tra la vittoria di Trump o di Harris. È quanto emerge da un articolo del Financial Times che descrive lo stato d’animo in Cina e l’attenzione con cui si guarda alle mosse e alle dichiarazioni dei due candidati. L’amministrazione Biden intanto tende un ramoscello di ulivo alla Cina inviandovi in visita il consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, che strappa la promessa di un nuovo colloquio telefonico tra Biden e Xi.

L’incertezza della Cina

C’è un clima pesante in queste settimane nella capitale dell’ex Celeste Impero, dove si contemplano con malcelata sofferenza due scenari diversi ma ugualmente problematici: una vittoria alle presidenziali Usa di novembre di Donald Trump o l’alternativa di un successo di Kamala Harris.

L’entrata in scena il mese scorso dell’attuale vicepresidente al posto dell’81enne Biden complica il quadro e disegna un alone di ulteriore incertezza sul futuro delle relazioni tra Usa e Cina. Se prima infatti le opzioni erano tra due leader giudicati falchi in misura molto simile, adesso a Pechino si scruta con attenzione ogni mossa della candidata dem per tentare di decifrare il futuro di una possibile presidenza Harris e in particolare se sia preferibile a un secondo mandato per The Donald.

Il clima è ben riassunto dal commento rilasciato al Ft da Zhao Ninghao, docente alla Fudan University, che paragona i due sfidanti a “due coppe di veleno per Pechino”. Malgrado la distanza siderale in termini di posizioni politiche, osserva infatti Zhao, “ambedue guardano alla Cina come a un competitore se non a un avversario”.

Difficile dire chi sia il meno gradito tra una leader che al Congresso ha votato risoluzioni di condanna delle azioni cinesi a Hong Kong e nello Xinjiang, o un ex presidente distintosi per aver lanciato una guerra commerciale contro la Cina e che promette, se eletto, di rincarare la dose dei dazi.

Parole al microscopio

È per questo che a Pechino si studiano con attenzione tutte le parole sgorgate dai due candidati nei vari comizi e interviste, e in particolare nelle due Convention di partito che hanno conferito loro la nomination.

Non è sfuggito che a Chicago la settimana scorsa, nel suo discorso di investitura, Harris abbia pronunciato il nome della Cina una volta sola, per assicurare che “sarà l’America e non la Cina a vincere la competizione per il XXI secolo”.

Un netto contrasto con le 14 volte in cui la parola Cina ha fatto capolino nel discorso di Trump alla Convention repubblicana di luglio durante il quale non ha saputo trattenere riferimenti espliciti e minacce.

La vera differenza

Agli occhi dei burocrati cinesi una differenza dunque c’è ed è anche vistosa e viene sottolineata al Ft da Thomas Qitong Cao che insegna alla Tufts Universities Fletcher School of International Affairs: di cosa pensi Trump in Cina si sa molto, anzi moltissimo, e ci si può dunque immaginare come intenda governare, “ma quanto a Harris, c’è ancora molto mistero”.

Non sfugge che prima di diventare vicepresidente la Harris non si sia mai recata in Cina, e che abbia avuto solo due incontri di alto livello: quello con Xi in Thailandia nel 2022 e quello col premier Li Qiang a Giacarta l’anno dopo.

Ma più che il pregresso, sottolineano gli accademici cinesi, conterà un altro fattore, ossia se un eventuale presidente Harris manterrebbe al loro posto quei membri dell’amministrazione Biden come il segretario di Stato Blinken o il consigliere per la Sicurezza Nazionale Sullivan che hanno avuto un ruolo decisivo nel guidare le più dure politiche anticinesi della Casa Bianca.

Sullivan a Pechino

Ed è questo elemento a rendere interessante l’attuale visita a Pechino di Sullivan, che ieri, nel suo secondo giorno di permanenza nella capitale, ha avuto un lungo confronto col suo omologo Wang Yi.

I media Usa come Cnbc hanno unanimemente rimarcato la rarità del viaggio. Non solo Sullivan non si era mai recato in Cina in quasi quattro anni di mandato, ma l’ultimo consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa che mise piede da quelle parti lo fece nel 2016 quando il presidente si chiamava Obama.

Sebbene lo scambio tra Sullivan e Wang sia stato franco come si dice in gergo diplomatico, ne sono scaturiti due risultati concreti come la promessa di un colloquio telefonico tra i due capi di Stato “nelle prossime settimane” e il contestuale annuncio dell’imminente visita in Cina di un altro importante esponente dell’amministrazione Biden come John Podesta, consigliere senior del presidente per le politiche internazionali sul clima.

Come osserva la Bbc, la scelta di tendere la mano a Pechino potrebbe essere ricaduta su Sullivan per le sue precedenti interazioni con Wang che, a detta dell’emittente, hanno contribuito a rendere più stabile la difficile relazione tra i due Paesi.

La natura speciale della visita di Sullivan è evidenziata da un altro evento che lo stesso consigliere ha definito “raro” e “molto importante” in quanto non si verificava dal 2018, l’incontro coi più alti ufficiali dell’esercito e in particolare con il vicepresidente della potente Commissione Militare Centrale generale Zhang Yiouxia.

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