Non credo che sia stato il ricordo dei 23 anni dalla morte, avvenuta il 22 luglio del 2001 nella clinica milanese della Madonnina, né quello dei due anni soltanto trascorsi dall’ultima incursione, chiamiamola così, contro la statua che lo raffigura nei giardini a lui intestati a pochi passi da quella che fu la prima sede del suo Giornale, in Piazza Cavour, a ispirare i vandali che gli hanno rovesciato ieri addosso la vernice di un viola quaresimale. Peraltro fuori stagione, essendo la Quaresima bella che finita con la Pasqua di Risurrezione. Che Montanelli onorò andando a messa fino a che visse la mamma, Maddalena, per farla contenta, più che per fede o convinzione. Ad una di esse lo accompagnai io a Piazza del Popolo 50 anni fa, col comune amico Mario Castiello D’Antonio, mentre fervevano i preparativi del Giornale che aveva messo in cantiere lasciando il Corriere della Sera e portandogli via la migliore argenteria professionale per ammissione dello stesso direttore di allora Piero Ostellino.
Poi, a messa finita, Mario e io lo accompagnavamo a casa a piedi, dalla mamma che ci aspettava a pranzo, attraversando il ponte sul Tevere più vicino che portava al quartiere Prati, dove di Montanelli è rimasta la strada dedicatagli dal Comune: la stessa dove la madre di Indro viveva.
Cinquant’anni sono tanti. Ed è stato forse questo anniversario – chissà – ad alimentare la fantasia e la vigliaccheria dei vandali a corto, stavolta, di vernice rossa. Cinquant’anni dalla rivolta del giornalista già allora più famoso d’Italia contro il conformismo politico e un po’ anche mediatico che attendeva, forse più rassegnato che davvero soddisfatto, la vittoria della sinistra. Non però su una Dc da abbattere, che aveva accompagnato con Alcide De Gasperi e i suoi successori la ricostruzione dell’Italia sulle macerie della seconda guerra mondiale, ma con una Dc sfiancata dall’ultima, sfortunata battaglia contro il divorzio, condotta da un segretario d’antan come il “rieccolo” di montanelliana memoria Amintore Fanfani. Al quale Montanelli, pur divorzista nel suo laicismo che gli aveva fatto votare sino ad allora il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, decise a suo modo di dare una mano nella resistenza alla vittoria della sinistra destinata ad apparire ancora più scontata dopo quel referendum. Alla cui campagna con un misto di pudore e di opportunità – o opportunismo, direbbe qualcuno – Montanelli decise di tenere fuori il suo Giornale facendolo uscire ad urne ormai svuotate e a sconfitta democristiana avvenuta. Uscì, anzi uscimmo il 25 giugno 1974, proprio nel giorno in cui in una riunione della direzione nazionale della Dc Fanfani doveva cominciare a “contare amici e nemici” – come Montanelli in persona titolò una mia corrispondenza da Roma in apertura del quotidiano – nella lunga battaglia interna che lo aspettava dopo lo smacco. Che Giorgio Forattini aveva immortalato in quella vignetta dove Fanfani era il tappo saltato dalla bottiglia di champagne stappata dai divorzisti.
La Dc avrebbe resistito ancora a lungo, oltre la stessa segreteria Fanfani, cercando di impantanare il Pci di Enrico Berlinguer nella cosiddetta politica di solidarietà nazionale, con l’aiuto di Montanelli. Che s’inventò, fra le timide doglianze telefoniche di Giulio Andreotti, la formula non della solidarietà nazionale ma del “voto alla Dc col naso turato” per evitarne il sorpasso elettorale da parte dei comunisti. Un voto rimproveratogli per niente timidamente dagli amici liberali, repubblicani e socialdemocratici, che fecero le spese di quella pesca elettorale dello scudo crociato per forza maggiore.
Ah, che anni. Quando si rischiava anche ad acquistare una copia del Giornale alle edicole. E noi alla redazione romana, in Piazza di Pietra, la sera delle elezioni regionali del 1975, che segnarono una forte avanzata del Pci, fummo raggiunti dai reduci da comizio di festa di Berlinguer, in via delle Botteghe Oscure, che ci sfidavano sarcasticamente al citofono a scendere in piazza a festeggiare anche noi. Anni apparentemente tanto diversi da quelli attuali per uomini, circostanze e partiti in campo.
Ma apparentemente, appunto. In fondo sono anni o tempi di conformismo pure questi. Di un conformismo che all’insegna dell’antifascismo, a fascismo sepolto da un’ottantina d’anni, vorrebbe fare della Meloni – la prima donna, e di destra, alla guida di un governo – il pericolo da eliminare. Contro il quale cronisti e opinionisti dalla disinvolta, a dir poco, fantasia arruolano un giorno si e l’altro pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dando in chiave antigovernativa interpretazioni a parole e gesti che lo stesso capo dello Stato smentisce nei fatti. Gli è accaduto in questi giorni in missione in Africa facendosi in qualche modo ambasciatore del cosiddetto “piano Mattei” in versione Meloni.
Mi sono chiesto più volte che cosa avrebbe fatto quel diavolo di Montanelli di fronte alla Meloni a Palazzo Chigi. E me lo sono sognato di recente chino, su quelle due lunghe gambe anch’esse sottili ed incerte, sul capo della premier a baciarne i capelli come un Joe Biden qualsiasi. E domani, chissà, anche come un Trump qualsiasi.