Solo due anni fa in occasione del conferimento della laurea honoris causa alla Cattolica di Milano l’allora ex Presidente della BCE Mario Draghi delineava i tratti connotativi del decisore politico, riassumendoli in queste tre doti: conoscenza, coraggio e umiltà. Non mi pare che sia venuta meno in lui e nella sua azione di Governo questa ispirazione fondativa: nel caravanserraglio della politica italiana, fatto di finzioni, tradimenti, alleanze traballanti, voltagabbana, programmi prima condivisi e poi disattesi, dove si aggirano torbide figure di demagoghi capaci di barattare la propria dignità fino a smentire sé stessi, la sua coerenza brilla cristallina e intonsa.
Un uomo retto e competente non può accettare il gioco delle tre tavolette, mi viene in mente una frase de ‘Il giorno della civetta di Sciascia’: “non era Zecchinetta, giocavano a zecchinetta”. Come dire che le carte si erano troppo sparigliate in una coalizione di unità nazionale che avrebbe dovuto perseguire il bene del Paese e qualche baro serviva – laicamente ‘a Dio e a Mammona’.
“Non abbiamo la libertà di decidere se dobbiamo fare ciò che è necessario fare per assolvere il nostro mandato. È nostro dovere farlo”: con queste parole Draghi aveva dettato un imperativo morale categorico che Conte non ha recepito, si capiva – come conferma lo stesso Di Maio – che tramava da tempo aspettando il momento più adatto per la giravolta del Movimento di cui è capo politico, fino ad abbandonare l’aula del Senato per non votare ciò che aveva approvato alla Camera.
Da quando la politica si è fatta cronaca – come diceva Martinazzoli – è possibile tutto e il suo contrario. Poco importa se le cancellerie e i leader del mondo libero si sono interrogati su questo gesto scellerato: in qualunque Paese democratico un uomo della statura internazionale, della cultura e dell’esperienza di Mario Draghi, una laurea alla Sapienza e una al MIT – il tempio indiscusso della formazione economica – se lo sarebbero tenuti stretto.
Viene da sorridere pensando che un quisque de populo possa contestare ad un leader come Draghi di aver agito senza la necessaria competenza. Abbiamo sentito pronunciare parole e affermazioni, avanzare rivendicazioni persino tautologiche e contradditorie poiché Draghi – da persona lungimirante e vero galantuomo – non ha mai usato metri diversi nel rapportarsi con le forze della compagine governativa. Per questo, tradito il patto dai 5S, lui ha considerato il venir meno delle condizioni che l’avevano generato. Significativa l’analisi di Reputation Science, che ha colto presso gli utenti Twitter un 74% con ‘sentiment’ negativo nei cfr. di Conte, mentre secondo l’indagine di Izi Spa il 53% degli italiani sono contrari ad immediate elezioni così come sarebbe utile riflettere sulle parole di Peskov, portavoce di Putin: “la crisi è un affare interno all’Italia… ma si auspica un governo non asservito agli USA”.
Molti ominicchi hanno soffiato sul fuoco per stigmatizzare la fedeltà all’alleanza atlantica di Draghi, per colpevolizzarlo di aver intuito le mosse economiche utili per mettere in crisi la Russia, a cominciare dal crollo di Gazprom. In una brillante analisi Laura Aprati, su Rai news, muove più di un sospetto sul fatto che nella crisi di governo italiana ci sia lo zampino di Mosca, troppe coincidenze anche nel resto d’Europa: Johnson, Macron, Scholz, Rutte e ora Draghi.
Certamente la mossa di Conte – che sta generando defezioni nel suo gruppo parlamentare e sarà forse vagliata dalla prassi demagogica del voto on line, rischia di far deflagrare il Movimento, è stata pensata dal giorno stesso del passaggio di consegne al Governo Draghi. Una vendetta personale: siamo troppo abituati ad attribuire valenza oggettiva e credibilità alle ragioni ufficiali di certe scelte: c’è una dimensione soggettiva e personologica che resta sottesa ed è fatta di sentimenti, in questo caso di antipatia, rancore, desiderio di vendetta.
Per questo motivo le valutazioni di un attento e fine osservatore politico come Marco Follini sembrano ingenerose. Non si può avanzare l’ipotesi che Draghi non sia stato capace di gestire i rapporti con le forze della coalizione di governo. Sono stati piuttosto i partiti a trasformarsi in cordate e congreghe di “cani perduti senza collare”, ingestibili dall’interno, figuriamoci da Palazzo Chigi. Draghi è un premier, non una badante.
La partitocrazia che si esprime attraverso i nomi dei capi nei simboli elettorali è la negazione del merito, mentre la gestione delle alleanze (anche di governo) è sempre in predicato e troppo legata agli umori e ai comportamenti del proprio capo. Non esiste leader di governo che possa rendersi garante della fedeltà alla coalizione in un rassemblement dove sprizzano scintille improvvise e schegge impazzite. Ritorniamo alle “virtù” indicate da Draghi: ciascuno deve fare i conti con la propria coscienza. Si pensa forse che un regime presidenziale possa dirimere i conflitti ma vediamo quanto sia arduo compattare le alleanze su programmi ampiamente concordati, votati e condivisi.
Molti sperano che Draghi ci ripensi, per il bene del Paese: anche il pragmatismo è una virtù, se unita a coerenza e lungimiranza.