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Marta Cartabia

Chi ha paura dell’elezione di Marta Cartabia alla presidenza della Repubblica?

Fatti e scenari su Cartabia secondo Damato

Che bello, almeno per uno della mia età e delle mie opinioni o preferenze politiche, il ritorno alla cosiddetta prima Repubblica che ho intravisto nella campagna prima velata e ora aperta, esplicita del Fatto Quotidiano contro la possibilità che la ministra della Giustizia Marta Cartabia venga eletta presidente della Repubblica alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. L’età che l’ha, con i 56 anni compiuti a maggio, sei in più del minimo prescritto dalla Costituzione, l’autorevolezza pure dopo essere stata presidente della Corte Costituzionale. Ed ha anche il vantaggio di poter essere la prima donna a salire al vertice dello Stato, essendosi altre fermate alle presidenze delle Camere: prima Nilde Jotti e Laura Boldrini a Montecitorio e tre anni fa Maria Elisabetta Casellati al Senato.

Anche nella cosiddetta prima Repubblica le gare al Quirinale cominciavano ben prima della convocazione delle Camere e dei delegati regionali per eleggere il nuovo capo dello Stato. A volte cominciavano prima ancora degli attuali sei mesi e poco più, fra ipotesi probabili o improbabili, candidature esplicite proposte dai più volenterosi o maliziosi e autocandidature implicite o silenziose, o soli processi alle intenzioni se improntati a preoccupazioni, e non ad auspici.

Addirittura nel 1992, quando una lunga, estenuante corsa al Colle più alto di Roma fu sbloccata da una strage -quella  mafiosa di Capaci, che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie e alla scorta, con un solo superstite- e si risolse in un rapidissimo confronto dietro le quinte fra i presidenti delle Camere, per una cosiddetta soluzione istituzionale, raccolsi personalmente la candidatura dello sconfitto alla corsa successiva, dopo sette anni.

Il repubblicano Giovanni Spadolini, al quale il Pds-ex Pci aveva preferito il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, cui certamente la Dc guidata da Arnaldo Forlani non poteva dire no, accettando poi che alla presidenza della Camera gli subentrasse Giorgio Napolitano, rispose pressappoco così al rammarico che gli espressi per telefono: “Caro Francesco, ero talmente sicuro di farcela da avere preparato il discorso di insediamento, essendo peraltro il presidente supplente per le dimissioni di Cossiga. Ma mi consolo pensando che fra sette anni avrò la stessa età di Scalfaro appena eletto”. Grande, indimenticabile, ottimista e legittimamente ambizioso Spadolini, che non poteva immaginare il tumore  probabilmente già in agguato, destinato a portarcelo via dopo due anni e un’altra delusione: la mancata conferma per un voto alla presidenza del Senato nel 1994. Fu l’anno di nascita della cosiddetta seconda Repubblica con la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e l’approdo di Carlo Scognamiglio al vertice di Palazzo Madama. Lo stesso Berlusconi, a disagio per la ragione politica prevalsa sui sentimenti personali, cercò di riparare facendo assegnare la presidenza della sua Mondadori a Spadolini.

Non vi fu leader della prima Repubblica, specie fra i mancati presidenti come Amintore Fanfani e Aldo Moro, in ordine rigorosamente alfabetico e d’età, che non si lasciò tentare, a dispetto di un disinteresse formalmente ostentato, dall’idea di allenarsi con largo anticipo alle varie edizioni della corsa al Quirinale. La presidenza del Senato che Fanfani volle e ottenne dopo le elezioni politiche del 1968 fu subito e generalmente interpretata come una prenotazione della presidenza della Repubblica, in vista della non vicina scadenza del mandato di Giuseppe Saragat, alla fine del 1971.

La “strategia dell’attenzione” proposta nei riguardi del Pci nell’autunno di quello stesso 1968 da Moro, appena detronizzato da Palazzo Chigi, fu altrettanto generalmente, e forse non a torto, interpretata come una contro-prenotazione del Quirinale.

Poi Fanfani avrebbe corso davvero per conto del suo partito senza riuscire però ad essere eletto per l’ostinazione dei “franchi tiratori” della Dc contro di lui. E Moro non sarebbe riuscito neppure  a subentrargli come candidato nell’aula di Montecitorio perché i “grandi elettori” democristiani a scrutinio segreto, e per meno di dieci voti, gli avrebbero preferito Giovanni Leone. Che Moro ordinò ai suoi amici, uno per uno chiamandoli al telefono, di votare disciplinatamente, consentendone l’elezione alla vigilia di Natale.

Marta Cartabia, per arrivare ai giorni nostri, e non ricordo neppure a quale edizione di questa nostra Repubblica, non si è proposta a niente e a nessuno. Si è solo proposta come guardasigilli, sostenuta fortemente dal presidente del Consiglio Mario Draghi, di riformare la prescrizione breve del suo predecessore pentastellato Alfonso Bonafede. Che, esaurendosi al primo grado di giudizio, lascerebbe gli imputati a vita.  La ministra ha predisposto invece, con una modifica alla riforma del processo penale all’esame della Camera, la improcedibilità dopo due o tre anni di attesa inutile della sentenza d’appello e dodici o diciotto mesi di attesa inutile della sentenza di Cassazione, secondo la gravità dei reati contestati dall’accusa. Questa riforma, che finalmente realizzerebbe la genericamente “ragionevole durata” dei processi sancita nell’articolo 111 della Costituzione, è bastata e avanzata all’ostilissimo Fatto Quotidiano per attribuire alla ministra la volontà o possibilità di essere eletta al Quirinale con i voti del centrodestra, evidentemente in alternativa al già e ancor più odiato Silvio Berlusconi in persona. Che avrebbe francamente qualche difficoltà in più, diciamo così, di farcela rispetto alla ministra. E forse egli è il primo a saperlo, nonostante certi avversari lo ritengano così sprovveduto da averci fatto davvero un pensierino.

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