Otre che dal maltempo il Paese è sembrato per un po’ paradossalmente diviso – a leggere certe cronache politiche – da chi pure ne rappresenta l’unità per dettato costituzionale: il presidente della Repubblica. Che immagino sia stato il primo a non condividere, e tanto meno gradire, l’uso che critici ed avversari del governo hanno fatto delle sue parole al Meeting di Rimini come se fosse all’opposizione, anzi ne fosse il capo, visto che quelle operanti in Parlamento, divise tra di loro, un capo non possono che sognarlo. E lo sognano appunto nella persona del capo dello Stato strappandogli non più soltanto la giacca, ma anche la lingua.
Eppure, proprio per impedire questo gioco perverso, prevedibile e previsto anche ai loro tempi, che non erano affollati come ora di tanti mezzi e tipi di comunicazione, i costituenti avevano stabilito nell’articolo 89 della legge fondamentale dello Stato che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”. E, per rafforzare il principio, avevano insistito nell’articolo successivo, il novantesimo, che egli “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”, di cui risponde davanti alla Corte Costituzionale dopo essere stato messo in stato di accusa dal Parlamento in sede comune.
D’accordo, la Costituzione parla di “atto” e non di parole del capo dello Stato, alle quali si aggrappano più di frequente le opposizioni di turno per farne quasi il loro portavoce. Ma anche su questa pretesa di distinguere così tanto fra atti e parole bisognerebbe che gli interessati allo strattonamento del presidente della Repubblica si dessero una regolata per non fare del Capo dello Stato non il loro difensore ma la loro vittima, deformandone il ruolo.
Personalmente ho condiviso il discorso di Sergio Mattarella a Rimini anche nelle allusioni al libro del generale Roberto Vannacci “Il mondo al contrario”, ma non trovo né sorprendente né disdicevole che la premier Giorgia Meloni non abbia ritenuto di doverlo commentare né per concordare, né per dissentire ma semplicemente per motivi di opportunità politica, essendo quel libro diventato oggetto di polemiche all’interno della maggioranza e dello stesso governo. Dove il ministro della Difesa Guido Crosetto, dello stesso partito della Meloni, ha ritenuto l’iniziativa del generale talmente discutibile da rimuovere l’autore da un incarico di comando che ricopriva. E il vice presidente leghista del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha invece telefonato al generale per esprimergli quanto meno l’interesse a leggere ciò che aveva scritto. E magari per contenderlo a Gianni Alemanno, dell’ultradestra sociale, come candidato a qualche elezione.
In questa situazione, e con una stampa altrettanto divisa sull’argomento, perché mai la premier avrebbe dovuto pronunciarsi per forza? E ritenere il suo silenzio scandalosamente “assordante”, come ha scritto Massimo Giannini sulla Stampa? O magari “diseducativo”, come Matteo Renzi dice di ciò che non gli piace, compreso Vannacci.
Non capitò, per esempio, proprio a Renzi rispettare doverosamente ma non condividere il rifiuto oppostogli da Mattarella dopo la bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale, nel 2016, di sciogliere anticipatamente le Camere già sopravvissute ad un’altra crisi di governo per dare alla legislatura il tempo di riformare la Costituzione, appunto? Fallita la quale, in effetti le Camere avevano ben poco da fare ormai.
Nel 2013, quando al Quirinale c’era Giorgio Napolitano, non capitò al segretario del Pd Pier Luigi Bersani di dissentire dal rifiuto oppostogli dal presidente della Repubblica di fargli fare un governo cosiddetto di “minoranza e combattimento” per mettere i grillini alla prova delle loro ambizioni e rivelarsi una forza di sola contestazione o anche di costruzione di nuovi equilibri? Napolitano preferì piuttosto ritirargli l’incarico di presidente del Consiglio, nel frattempo diventato “pre-incarico”, ma non per questo fu scambiato da Bersani per un golpista o perse la sua stima e amicizia.
Ancor prima, risalendo sino alla cosiddetta prima Repubblica, non si gridò allo scandalo quando il maggiore partito italiano, la Dc, non condivise la decisione di Luigi Einaudi di conferire l’incarico di presidente del Consiglio a Giuseppe Pella non designato dal suo partito, che ne trattò il governo riduttivamente come “amico” e lo fece cadere al più presto. Né la Dc, sempre lei, ruppe i rapporti con Sandro Pertini che nel 1979 aveva a sorpresa incaricato di formare il governo il segretario socialista, come lui, Bettino Craxi. Né quest’ultimo personalmente o come partito di cui era leader ruppe i rapporti nel 1987 col capo dello Stato Francesco Cossiga che gli aveva negato il diritto reclamato di guidare col suo governo dimissionario le elezioni anticipate, imposte dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita.
Se è stato possibile a leader politici e di governo di dissentire tanto spesso dal presidente della Repubblica per atti da lui compiuti figuriamoci se può essere negato a Giorgia Meloni il diritto – senza che diventi uno scandalo – di non condividere tempi e modi di una esternazione del capo dello Stato. Che peraltro, ripeto, è stata allusiva – e niente di più – al libro di un generale prepotentemente entrato nel dibattito politico e strumentalizzato per i più diversi fini. Ci deve pur essere una misura nella polemica quando entrano in gioco le istituzioni.